Vita in famiglia Michael Bishop Michael Bishop è senz’altro uno degli autori più completi e maturi della fantascienza degli anni settanta-ottanta, come testimoniano opere ricche di forza narrativa e di brillanti ritratti di culture aliene quali Il tempo è il solo nemico e Il segreto degli Asadi. Qui lo vediamo all’opera nella descrizione di un’altra società di un futuro non molto lontano, costituita da «anziani» che si riuniscono in matrimoni di gruppo sponsorizzati dal governo. Il loro mondo e le loro strutture sociali sono affascinanti, ma sono proprio i personaggi, ognuno un essere umano magnificamente dipinto, che cattureranno la vostra attenzione e la vostra simpatia. Michael Bishop Vita in famiglia 1. «Venduta lungo il fiume» Alle sei di un silenzioso mattino, Lannie sedeva davanti alla visi-consolle, nel vano-letto nel Settore B-11, Porta 47, Livello 3. La nausea cominciava a insinuarsi da qualche parte nelle sue viscere: gorgoglii, rimescolii e un borbottio ritmato. E Sanders — quell’omaccione di Sanders — russava sdraiato sul letto; se anche i Livelli 1 e 2 fossero crollati su di loro, lui avrebbe continuato a dormire, in quanto doveva alzarsi soltanto di lì a un’ora. Lannie, però, intendeva resistere; non era ancora andata in bagno, non le importava di quanto la nausea la infastidisse. Avrebbe rischiato di svegliare Zoe, e lei non era ancora pronta per Zoe, e forse neppure per il resto della giornata. Le braccia incrociate sul petto, Lannie si chinò sulla consolle luminescente e richiamò il notiziario del Journal/Constitution. Giorno 13 d’Inverno, 2040, Nuovo Calendario. Prima pagina, editoriali, sport, cronaca, annunci pubblicitari, curiosità. Poi, tra gli appelli della polizia e i necrologi, un annuncio in un riquadro: CERCASI persone di oltre sessant’anni per collaborazione alla seconda fase dello studio quinquennale promosso dalla COMMISSIONE SVILUPPO UMANO URNU. Condizioni fisiche e sesso irrilevanti; le selezioni si baseranno sia sulle esigenze che sull’interesse soggettivo di ciascun caso. Remunerazione per le famiglie dei prescelti. Contattare il dott. LELAND TANNER, o suo sostituto, presso la Torre dello Sviluppo Umano UrNu. Lannie, che ancora si teneva stretto l’addome, fermò la «pagina» sul video. Dopo averla riletta altre due o tre volte si sedette e si mise a fissare il soffitto oscurato della stanza. — Eureka — sussurrò verso le aperture acustiche, lassù. — Eureka. Sanders, rigirandosi, con la bocca contro il cuscino, replicò con un sibilo simile a quello di una balena. No, Zoe non s’illudeva. Anche lei aveva letto i notiziari, forse anche più attentamente di loro, e se Melanie e Sanders credevano di ingannarla con quella gita estemporanea alla Torre dello Sviluppo Umano, dovevano rivedere le loro stupide intenzioni. Non sono nata ieri, pensava. Era una situazione talmente ridicola, là nel cortile interno, sul viottolo di ghiaia fra le begonie e i gigli, con Sanders che si guardava intorno come un ladro e Melanie che con la punta della scarpetta tracciava cerchi sulla ghiaia, che Zoe si mise a ridacchiare stupidamente. — Finiscila, mamma! — Scusami Lannie, scusa se esisto. — Parole che erano altrettanto ragionevolmente divertenti. Così ridacchiò di nuovo. — Perché vuole incontrarci qua fuori? — disse Sanders. — Perché non sbriga la faccenda come se dovesse concludere un affare? — Sanders era da poco diventato un mediatore. Aveva dovuto tenersi libero il pomeriggio. — Non tutti trattano gli affari come fai tu — rispose Melanie, che lavorava come indossatrice per la Consolidated Rich’s. Erano le 2.10 del pomeriggio e i tecnici avevano programmato una temperatura estiva di 23 °C, benché si fosse ancora nel mese d’Inverno. Come Zoe aveva constatato lasciando il viottolo, l’erba del cortile era sintetica, e per i giovani Noble e per la madre di Melanie il cielo era costituito dalla lucente, remota geometria della cupola geodesica di Atlanta. Da ogni lato si innalzavano le bianche torri di quel settore dello Sviluppo Umano chiamato Ricovero Geriatrico. Parecchie camere avevano terrazze che si affacciavano sul giardino e ai vari piani, su ogni lato tranne quello del settore di cura intensiva, c’erano i volti di individui dai corpi consunti o flaccidi che guardavano in basso, verso di loro: due o tre residenti si reggevano in piedi in modo precario, ma molti altri erano su sedie a rotelle o a dondolo. All’infuori di questi volti, i Noble e l’anziana donna avevano il giardino ben curato tutto per loro. — Casa, dolce casa — fece Zoe, osservando quelle copie di se stessa che stavano sulle terrazze. Poi: — Venduta lungo il fiume — disse. — Venduta lungo il fiume. — Mamma, per amor di Dio, piantala! — Chiamalo come vuoi, Lannie, io so cos’è. — Sono Leland Tanner — si presentò il giovane, prendendoli di sorpresa. Era come se fosse rimasto nascosto ad aspettarli dietro una svolta del viottolo, tra le fitte fronde di una palma dal grosso fusto. Leland Tanner sorrise. Alto più di due metri, aveva un volto equino con un paio di occhiali dalle lenti azzurre, le cui aste sparivano fra ispidi capelli brizzolati. Un tipo dall’aspetto simpatico. — Zoe Breedlove, vero? — fece, rivolto alla donna. — E voi siete i Noble… Ma credo che parleremo meglio qui fuori, in cortile. — Li condusse nei pressi di un’ombroso ginkgo lungo un viottolo, e invitò la famiglia a sedersi su una panchina di pietra, di fronte a quella in cui lui prese posto. Lì erano al riparo dagli occhi indiscreti delle infermiere. — Zoe — esordì, distendendo le lunghe gambe. — Noi pensiamo di accettarti nella nostra comunità. — Oh, dottor Tanner — intervenne Melanie. — Siamo così… — Cioè, sono stata venduta lungo il fiume. — Dannazione, mamma! Gli occhi del giovane, che a Zoe sembravano due purissime gocce di zaffiro dietro alle lenti colorate, si posarono su di lei. — Ignoro le motivazioni di tua figlia e di tuo genero, Zoe; ma qui lungo il Chattahoochee, per stare alle tue parole, troverai una vita migliore di quella della piantagione. Qui sarai più libera. — Lei è libera quanto vuole, con noi — affermò Sanders, stizzito. — E non credo che la metafora della piantagione sia appropriata. — In qualche modo riusciva sempre a incespicare sulle parole. Soltanto gli occhi del dottore si mossero: — Può darsi, Mr. Noble — disse. — Nel Nucleo Urbano le libertà sono limitate per tutti allo stesso modo. — Il motivo per cui lo fanno — affermò Zoe, posando le mani in grembo (indossava un vestito comodo, orlato di pizzo alle maniche e sul colletto), — è perché Lannie è incinta, e non mi vogliono nel cubicolo. Non lasceranno tanto presto il Livello 3, e noi disponiamo solamente di quattro stanze. Lo fanno per mandarmi via. — Mamma, non è per mandarti via. — Non so perché lo facciamo — aggiunse Sanders, fissando la ghiaia. Zoe si rivolse al dottore che, in una posa rilassata, ascoltava attentamente: — Avrebbe potuto dormire nella mia camera, — disse. Poi con un riso sommesso aggiunse: — E ora si pentono di non averci pensato prima di portarmi qui, quei due disgraziati di Lannie e Sandy. — Dottor Tanner — riprese Melanie. — Lo facciamo tanto per lei quanto per noi stessi e il bambino. Le insinuazioni riguardo ai nostri motivi sono soltanto… — Denaro — L’interruppe Zoe, sfregando il pollice sulle altre dita, come un usuraio. — Ho letto l’annuncio sui notiziari. State selezionando i vecchi, vero? — Qualcosa del genere — rispose il dottor Tanner, alzandosi in piedi. — Comunque, Zoe, io ho scelto te. — Sotto al pergolato di foglie di gingko osservò il gruppetto di persone che aveva di fronte, e i suoi occhi erano dei potenti surrogati per lo sguardo miope di quelli che stavano sulle terrazze. — Non accettatemi — disse Zoe, — avranno ciò che si meritano. — D’ora in poi — replicò il giovane, — ci preoccuperemo di trattare bene te, e di darti la possibilità di renderti utile. Sanders, il genero, sollevò la testa e scrutò fra gli spiragli delle fronde. — Dovrebbe essere Inverno — commentò. — Spero che facciano piovere. — Ma dall’alto si riversava un’uniforme, monocromatica luce pomeridiana. E c’erano 23 gradi. 2. Sposare la fenice Si trovò sola col giovane Leland in una stanza che dava sul giardino; lui aveva scostato la tenda in modo che potesse guardare fuori mentre parlavano. Sedeva su una poltrona con ampio schienale tappezzata con spenti motivi floreali. I suoi piedi affondavano in un folto tappeto screziato. Su un piccolo tavolino di mogano era posato un servizio da tè di un delicato colore azzurrino, mentre il vassoio era d’argento. Melanie e Sanders se n’erano andati da mezz’ora, ma non sentiva la loro mancanza. Avrebbe potuto passare molto tempo prima di avere l’occasione di rivederli, ma il fatto non la turbava. I gingko del giardino offrivano al suo sguardo il loro curioso fogliame orientale, ed il giovane la stava osservando come uno spasimante, anche se timoroso. — È una stanza confortevole — fece Zoe. — Be’, effettivamente — affermò lui, — è una sorta di camera di decompressione, o a tenuta stagna: l’arredo accogliente non deve trarre in inganno. Di solito non sono così esplicito quando ne spiego la funzione; la maggior parte dei futuri residenti del Ricovero Geriatrico devono essere introdotti un poco alla volta nel loro nuovo ambiente, senza il minimo accenno al cambiamento che si sta verificando. Ma tu, Zoe, non solo ne sei consapevole fin dall’inizio, ma possiedi anche la prontezza di spirito per accettarlo, come se non dovessi fare altro che infilarti un paio di calze. — Non mi riesce più così facile, comunque. Lui chinò il capo. — Ciò conferma quanto sto dicendo. Io ti considero una donna adattabile; una qualità che, oltre al colloquio che ho avuto con i tuoi, mi induce a sceglierti candidata per il secondo livello del nostro studio. Usare un termine come camera stagna per descrivere questo salotto non deve turbarti. Perché, Zoe, se decidi di restare con noi e confermare così la tua candidatura, sarai molto simile ad un astronauta che passa dall’angusto abitacolo della capsula — attraverso questa stanza, la tua camera stagna — nell’alieno ma sconfinato universo dello spazio esterno. — Prima una negra venduta lungo il fiume. E adesso un’astronauta. — Zoe scosse il capo e guardò il cerchio umido che la tazza le aveva lasciato sulla gonna, sopra il ginocchio. — Sono vecchia, Mr. Leland, ma ancora in circolazione. Più di quanto si possa dire degli schiavi e degli astronauti, per fortuna, o sfortuna, a seconda dei casi. Gli occhi viola del giovane Leland (si era tolto quegli orrendi occhiali) luccicarono come quelli di St. Nick, ma non si mise a ridere, non apertamente, almeno. — Quanti anni hai, Zoe? — chiese lui, invece. — Sessantasette. Non glielo hanno detto? — Certo. Volevo saperlo da te. — Giusto. Sono nata nel 1973, prima ancora delle cupole, e arrivai qui ad Atlanta da Winder, Georgia, durante la Lotteria della Prima Evacuazione. Avevo ventidue anni, vergine e nubile, benché in quei giorni avresti fatto meglio a non confessare la prima condizione, un po’ come adesso. Conobbi mio marito, Rabon Breedlove, quando la cupola non era ancora ad un terzo della sua costruzione. Ma un terzo della mia vita — tutta la mia giovinezza, insomma — l’avevo passata all’Esterno, senza comprendere quanto fosse pericoloso, e i politici della città consideravano un tradimento trovarsi là fuori. — Vide che alcune foglioline scure di tè erano rimaste sul fondo della porcellana azzurrina quando posò la tazza vuota. — E quanti anni ha Melanie? — Ventotto o ventinove. Vediamo… — calcolò. — È nata nel 2011, l’ho avuta tardi ed è l’unica figlia. In precedenza Rabon ed io avevamo provato ad averne. Ho abortito quattro volte, mentre un’altra il bimbo nacque già morto e finì nei convertitori di rifiuti prima che avessi la possibilità di dargli un nome. Nessuno ci disse se era maschio o femmina. E infine arrivò Melanie, che nacque in inverno, proprio quando pensavamo che non ne avremmo mai avuto uno. Le sventure precedenti vennero dimenticate: finalmente, Rabon e io, avevamo il nostro roseo e vispo marmocchio. — Lei aveva otto anni, quando tuo marito morì. — Embolia. Mr. Leland si alzò e andò alle tende della finestra. Lei vide che le scarpette del giovane sparivano nel folto tappeto, nonostante i suoi piedi fossero enormi. — Il Ricovero Geriatrico è diviso in due settori, Zoe: il primo comprende la casa di cura e l’ospedale, mentre il secondo è una comunità autonoma, amministrata dagli stessi residenti. Tu non hai bisogno del primo settore, ma puoi decidere di candidarti per il secondo. — Oh, posso scegliere? — Noi non costringiamo nessuno a restare, ma per quanto riguarda quelli destinati al settore di cura, per costoro è spesso impossibile scegliere. Le famiglie decidono al loro posto, e noi facciamo del nostro meglio per ridare loro la capacità di prendere decisioni in modo ponderato e autonomo. — Che cosa significa essere «candidato»? — Se lo diventerai, farai parte di una delle nostre comunità indipendenti. Tuttavia la permanenza in uno di questi gruppi dipenderà da te e dai membri del gruppo stesso. — E se non andassi a genio a quei vecchi noiosi? — È improbabile. Ma anche in questo caso ti troveremo un’altra famiglia o ti permetteremo di formarne una nuova. Qui non abbandoniamo nessuno, Zoe. — Per la miseria — fece lei, calma. Mr. Leland inarcò le sopracciglia. — Mio padre usava quest’espressione. Si rivolse a lei con grande franchezza. — Tuo marito è morto vent’anni fa. Ti andrebbe di risposarti? — Mi sta facendo una proposta? Ora sì che poteva ridere. Sia con la voce che con gli occhi. E lei ascoltava. — No, no — precisò. — Non c’è niente di personale. Pensavo alla prima unità settigama in cui vogliamo inserirti. O ai sei componenti che sono rimasti. Questo è il motivo. Avrai sei compagni, e non uno solo, Zoe. Tre mariti e tre mogli, se questi termini significano ancora qualcosa in un contratto matrimoniale di questo tipo. Il nome dell’unità familiare è Phoenix. E se rimarrai con queste persone il tuo nome sarà Zoe Breedlove-Phoenix, almeno entro i confini del Ricovero Geriatrico. Ma lo sarà anche altrove, se le cose andranno come speriamo. — Sembrano dei giocatori di bridge a cui manca l’ottavo per completare due tavoli. — Farai qualcosa di più che giocare a bridge con queste persone, Zoe. Niente false modestie, niente inibizioni socialmente indotte. Il numero dispari risponde ad una precisa esigenza, e non è semplicemente un modo bizzarro di mescolare le carte. Impedisce le situazioni di parità, le quali, talvolta, si verificano su basi estremamente arbitrarie. I vecchi programmatori della NASA lo sapevano bene, quando destinarono tre uomini per le missioni Apollo. Noi, qui, osserviamo lo stesso principio. — D’accordo, Mr. Leland. Ma ricorderà anche che di questi tre astronauti solamente due scendevano per l’allunaggio. Il volto equino di Leland impallidì, e le guance, la mascella e i denti si contrassero fino a trasformare la sua abituale espressione nel sogghigno di un ragazzino impertinente. Si grattò fra i capelli arruffati: pelo sulla testa, pelo attorno alle scarpe: — Forse devo ritirare l’offerta dell’unità Phoenix e tenerla per me, signora Breedlove. Tutto ciò che posso risponderti è che l’allunaggio non deve necessariamente rispettare la tradizione. Nella maggior parte dei casi il contratto di settigamia ha funzionato piuttosto bene in questi ultimi cinque anni, qui al ricovero. E la tua intelligenza e prontezza di spirito mi inducono a credere che sei in grado di confermare la tua candidatura e contrarre matrimonio coi Phoenix. Vuoi essere candidata, Zoe? Zoe posò la tazza sul vassoio d’argento. — Mr. Leland, lo sa che avrebbe dovuto fare l’attore brillante? — con questo non voleva assolutamente insinuare che lui potesse rivaleggiare con Sanders Noble in quanto a senso dell’umorismo. Nossignore. Sanders riusciva a restare serio in una stanza satura di gas esilarante. — Non hai risposto alla mia domanda. Lo desideri? — Oh sì — rispose Zoe, afferrando ciò che lui le stava offrendo. — Lo voglio. 3. Helen e gli altri Leland Tanner chiamò qualcuno all’intercom del salotto. Poi, chinandosi su Zoe in modo che potesse sentire il suo intenso profumo di colonia, la baciò sulla nuca. — Adesso devo andare, Zoe. Se decidi di restare mi vedrai solo di tanto in tanto; la tua nuova famiglia assorbirà il tuo tempo e le tue attenzioni. Comunque, non c’è alcun divieto di frequentare persone culturalmente immature. Se ti andrà, potrai vedere me o chiunque altro che sia più giovane di te. Solo, fammelo sapere. — Lo farò, Mr. Leland. — Arrivederci. — Attraversò il tappeto fittamente intrecciato, la salutò sulla porta scorrevole a vetri e uscì in cortile. In un istante Zoe lo vide sparire lungo uno dei viottoli nascosti dalle fronde, e i placidi, curiosi gingko furono al centro della sua attenzione fino a quando una delle porte interne non si aprì e una donna esile, dai corti capelli grigi non la raggiunse. — Zoe Breedlove? — Tenendo davanti a sé una grossa busta marrone, la donna guardò in direzione della sedia dall’ampio schienale, ma senza fissarla direttamente. Una graziosa, fragile donna dagli occhi chiari e opachi e un sorriso asimmetrico. — Sono io — rispose Zoe. Allora gli occhi della donna si focalizzarono su di lei e il sorriso si interruppe. Si trascinò fra il folto del tappeto fino alla sedia di fronte a Zoe, poi si fissarono reciprocamente, separate dal servizio da tè. — Mi chiamo Helen — disse. — Helen Phoenix. Credo che Parthena e Toodles desiderassero un altro uomo, ma io sono felice che Leland abbia trovato qualcuno che non ci ricorderà Yui-chan. Sarebbe stato ingiusto nei tuoi confronti. — Yui-chan? — La parola suonava straniera, in particolare per una donna che viveva sotto una cupola della Georgia. E l’accento di Helen rivelava che non era di Atlanta. New York? Comunque doveva essere una città cosmopolita, almeno un tempo. — Yuichan Kurimoto-Phoenix. Era nato a Kyoto, ma il suo modo di comportarsi era quello di un focoso italiano. Aveva dei gusti orribili in tutto, per niente fine. C’è uno scoiattolo di gesso sul tronco di un albero, in giardino: l’ha fatto Yuichan. — Helen chinò il capo. — Un uomo simpatico, proprio simpatico. — Spero che gli altri non credano che voglia prendere il posto di Yoo-chi. Io non so nulla della Cina. Il sorriso della donna si spense agli angoli della bocca e poi riapparve lentamente. — Tuttavia — disse, — assomigli a Yuichan più di quanto tu non creda. Il che è positivo: un vantaggio per noi. Comunque il ricordo che ancora conserviamo di lui non condizionerà affatto il nostro giudizio. Ne sono certa. Toodles preferisce sicuramente un altro uomo perché è un tipo sensuale, e ritiene che Paul e Luther siano inadatti al nostro servizio. Servizio: forse si trattava proprio di ciò che lei immaginava. Zoe si sporse sul tavolino: — Ti andrebbe una tazza di tè che Leland ha lasciato? — Volentieri. E se fai un po’ di spazio, Zoe — posso chiamarti Zoe? — ti presenterò gli altri prima di salire. È un vantaggio che avrai nei loro confronti, ma probabilmente sarà l’unico. Lo concediamo raramente. — Bene. Cercherò di sfruttarlo. — Dopo aver spostato il servizio da tè, osservando Helen che prendeva le foto e gli stampati dalla busta, Zoe si accorse che la donna era cieca. Gli occhi vitrei si muovevano indipendentemente dal suo sorriso, dalle sue mani. Erano occhi stupendi, in qualche modo simili a cuscinetti a sfera privi di peso. Parti meccaniche che si muovevano in un corpo simile al tempo stesso a quello di un gatto siamese e di un animale dal pelo argentato. Le piccole mani di Helen afferrarono con sicurezza le foto e le schede. Zoe, lasciandosi trasportare dal ricordo, sfiorò una delle foto. — Puoi dare un’occhiata mentre bevo il tè, Zoe. Non voglio annoiarti. Il primo foglio del plico era stampato con chiarezza dal computer. Zoe lo prese e lo girò in modo da poterlo leggere. UNITÀ SETTIGAMA PHOENIX Cerimonia di stipulazione: Giorno 7 di Primavera, 2035, Nuovo Calendario. Componenti: M.L.K. Battle (Luther). Nato l’11 luglio 1968, V. Cal. Nessuna famiglia originaria. Ultimo datore di lavoro: Compagnia demolizioni e Costruzioni McAlpine. Tuttofare e animatore dell’unità settigama. Orto-Urbanista, scaduto, dispensato per anzianità, nero. Parthena Cawthorn. Nata il 4 novembre 1964, V. Cal., Madison, Georgia. Un figlio, Maynard; una nuora e tre nipoti: cittadini affrancati UrNu. Ultimo datore di lavoro: Industrie Inner Earth. Artigiano usg e folklorista. Orto-Urbanista, semiattiva, nera. Paul Erik Ferrand. Nato il 23 ottobre 1959, V. Cal, Bakersfield, California. Membri della famiglia (figlio, nipote, pronipote) nei Nuclei Urbani di Los Angeles e San Francisco. Ultimo datore di lavoro: (?). Mistico Inclassificabile. Dispensato per anzianità. Bianco. Yuichi Kurimoto (Yuichan). Nato il 27 maggio 1968, V. Cal., Kyoto, Giappone. Ultimo datore di lavoro: Visicomputer Enterprise, filiale di Atlanta, legislatore usg. Neobuddista, scaduto, dispensato per nazionalità. Orientale. Joyce Malins (Toodles). Nata il 14 febbraio 1971, V. Cal., nessuna famiglia originaria. Ultimo datore di lavoro: Malins Musica, Canto e Danza. Musicista usg. Orto-Urbanista, scaduta, dispensata per anzianità. Bianca. Helen Mitchell. Nata l’11 luglio 1967, V. Cal, Norfolk, Virginia. Un figlio all’UrNu di Washington, una figlia all’UrNu di Philadelphia. Ultimo datore di lavoro: Servizio Civile UrNu, filiale di Atlanta, economo usg. Orto-Urbanista, semiattiva. Bianca. Jeremy Zitelman (Jerry). Nato il 9 dicembre 1970, V. Cal. Nessuna famiglia originaria. Ultimo datore di lavoro: Università della Georgia, Estensione Urbana, Dipartimento di Astronomia, storico usg. Ebreo recidivo, dispensato per anzianità. Bianco. Un gruppo eterogeneo, concluse Zoe: un bel miscuglio. Sulla scheda biografica di Yuichi Kurimoto era stampata a grandi lettere maiuscole rosse la parola DECEDUTO, ma senza nascondere i dati sotto di essa. Zoe esaminò le foto e provò ad abbinarle alle schede (non erano foto ben riuscite); le associò facilmente, ma era abbastanza evidente che alcune erano state scattate qualche anno prima. Per esempio Paul Erik Ferrand, che doveva avere più di ottant’anni, era un tipo slanciato e dall’aspetto scaltro che portava una cravatta di un modello passato di moda da vent’anni. Zoe doveva incontrare queste persone in carne e ossa perché i loro nomi e i loro volti assumessero un significato. — È questo che diventerò… una settigama, se mi accetterete? — È solo un termine convenzionale, Zoe, creato da qualcuno che non sapeva dare un nome ad una famiglia come la nostra. Ma non preoccuparti, nessuno di noi lo usa. Come vedi, queste schede informative contengono solamente «fatti», vagliati e approvati dall’UrNu: impersonali e burocratici. Sia io che Jerry avremmo potuto metterci un po’ più di stile, ma sfortunatamente i pezzi grossi del servizio civile non lo vedono molto di buon occhio… — La sua voce sfumò. — È confortante: avrei passato dei brutti momenti pensando a me stessa come a… ad un’unità settigama. — Un termine altisonante, quello. — Stando alla biografia di Yoochi risulta che lui era il legislatore della famiglia. Ciò significa che anch’io avrò questa funzione, prendendo il suo posto? — No, no. Su queste schede ufficiali a ciascuno viene assegnato un ruolo, come se fossimo giocatori di baseball o i pezzi di una scacchiera. In realtà noi facciamo ciò che ci riesce meglio, e definendo in tal modo la nostra personalità, anche gli altri finiscono per accettarla. Forse, più avanti, qualcuno ti metterà un’etichetta. Ma non sarà certo un Phoenix a farlo. — Mr. Leland? — Può darsi. Qui stanno svolgendo delle ricerche, anche se ce ne dimentichiamo quasi sempre, e le ricerche richiedono statistiche e definizioni. È una legge cosmica come la gravitazione, il magnetismo e così via. — Be’, anche una mela, se fosse stata dispensata per anzianità, forse non sarebbe caduta. Gli occhi vitrei di Helen si chiusero. — Un’osservazione acuta. Ma noi dobbiamo avere la possibilità di crearci dei termini. Il nome Phoenix, come sai, è stato una nostra scelta. Altre famiglie della Torre si chiamano Cherokee, Piedmont, O’Possum e Sweetheart. — Oh, sono bei nomi anche questi — e lo erano veramente; avevano ciò che Helen probabilmente definirebbe stile. — Sì — commentò Helen, compiaciuta. — Lo sono. 4. Salendo la scala di Giacobbe Zoe li incontrò quella sera, durante la cena. Mangiavano in una sala addobbata con uno stendardo trapuntato sulla parete, e parecchie piante in vaso che Joyce Malins (Toodles) diceva di aver acquistato da un fiorista dei quartieri bassi, in un negozio chiamato Kudzu. I Phoenix disponevano di un intero appartamento, comprendente anche la cucina, al quarto piano del Ricovero Geriatrico, e quella sera erano stati Luther, Toodles e Paul ad occuparsi della cena: focaccia di granoturco, verdure surgelate e pasta con salsa di surrogato di carne. Meglio di quanto Lannie riuscisse a fare dopo due ore di passerella, sfilando coi nuovi modelli per quegli sporcaccioni della Consolidated Rich’s; meglio di quanto Zoe di solito preparava per sé, se è per questo. Il tavolo era rotondo, di legno, sufficientemente grande per sette persone, e su di esso era posato un bricco di metallo con tè freddo e zuccherato, nonché diversi piatti di porcellana. Zoe notò che non c’era nessuno addetto al servizio, nessuna infermiera, nessun giovanotto in camice bianco e dalle labbra serrate. Un biomonitor, collegato a ciascuno di loro mediante braccialetti d’argento sensibili alle pulsazioni era l’unica presenza estranea nella sala da pranzo, e per il momento se ne stava tranquillo. (Comunque era sicura che qualcuno, ai piani inferiori, lo tenesse sotto controllo.) Zoe, un po’ impacciata, rigirò il suo braccialetto, un oggetto carino benché fosse una sorta di apparecchiatura medica. Lei era già collegata: una neo-Phoenix. Helen fece le presentazioni. Zoe sedeva tra lei e Jerry. Partendo da Helen, in senso orario, c’erano Parthena, Paul, Luther e Toodles. Jerry sedeva su una sedia a rotelle, con un plaid sulle ginocchia. Gli altri, come Helen, sembravano in grado di muoversi senza problemi, compreso l’ottantenne Paul, i cui occhi assomigliavano a quelli di un weimaraner e la cui bocca sapeva ancora atteggiarsi maliziosamente. — Quanti anni hai, Zoe? — domandò lui, dopo che la breve presentazione si era conclusa tra mormorii e il tintinnio dei cucchiai. — Paul! — esclamò Helen. Esattamente come Lannie era solita zittire lei, Zoe; ma solo con più garbo. — Scommetto che non è vecchia quanto me. Lo dò a tre a uno: fate le vostre puntate. — Fece schioccare le labbra. — Nessuno è più vecchio di lui — disse Jerry. La sua chioma sembrava un soffione: la stessa forma, lo stesso grigio, la stessa fragilità. Era rosso in volto. — Ho sessantasette anni — rispose Zoe, per la seconda volta in quel giorno. Ma dire la propria età non fa invecchiare: infastidisce solamente. — Sangue giovane — commentò l’uomo di colore dal volto massiccio: Luther. I suoi capelli (adesso Zoe cominciava a fare dei confronti) erano dello stesso bianco che si vede nei negativi delle foto, un colore scuro rovesciato. Le mani, ai lati del piatto, parevano la testa di un maglio. — Hooooi! Miei cari, ci hanno fatto una trasfusione; abbiamo sangue giovane. — Toodles non è più la piccolina — disse Parthena, il volto affilato e severo come quello di una maschera Zulu. Zoe riconobbe l’accento della piantagione; ma quello di Luther si avvicinava più a quello di Paul o di Toodles che a quello di Parthena; ad eccezione di quell’Hooooi! Solo di quello. — Che ne dici, Toodles? — chiese Paul. — Alla fine hai messo il piede sul primo gradino della scala di Giacobbe. Io sono sul più alto, ma anche tu, alla fine, ci sei salita. — Toodles, la cui bocca era un cuoricino rosso brillante (anche se nessuno più usava rossetto o mascara), abbassò la forchetta per rispondere, ma quel vecchio eccentrico di Paul si rivolse ancora a Zoe: — Sono sul gradino più alto, ma non morirò mai. Sono nato in California. — Un tipico nonsense Ferrand-Phoenix — fece Jerry. — Non mi sono mai posta il problema di essere la più giovane, qui — s’intromise Toodles. — E neppure mi dispiace perdere questo primato. — Il volto dalla mascella prominente si girò in direzione di Zoe. — Zoe — disse. — Oggi ho comprato quella fucsia e i coleus proprio per il tuo arrivo. Parthena ed io ci siamo avventurate in quella giungla oltre New Peachtree ed abbiamo mercanteggiato con quel piccolo negoziante eurasiatico dai prezzi esagerati. Poi siamo tornate portando da sole i nostri acquisti, vasi e tutto il resto, senza alcun aiuto da parte di questi bravi gentiluomini. — Ovviamente — disse Parthena, — prima che sapesse la tua età. — La maschera Zulu sorrise: una dentatura perfetta. Parthena, più alta di chiunque altro nella stanza, sovrastava tutti anche rimanendo seduta. — Parthena, maledetta la tua pelle nera, lo sai che non avrebbe fatto differenza! Proprio nessuna! — Toodles lasciò cadere la forchetta, la bocca che si piegava in una serie di «O» irregolari. — È uno scherzo — si scusò Parthena. — Davvero. — Che c’è di tanto divertente se io sono più giovane i tutti voi, vecchi cadaveri? — Il mascara, inumidito dalle lacrime, trasformava i suoi occhi in profondi crateri. — Che c’è di tanto divertente? — Perché se la prende tanto? — chiese Luther, rivolto agli altri. — Assecondala — fece Jerry, ammiccando a Zoe da sotto la folta capigliatura. — Crede di avere le mestruazioni. Paul e Luther scoppiarono a ridere, prendendosi beffe degli altri. Sobbalzando come se fosse stata punta da un’ape, Toodles colpì la sedia con la mano e fissò ad uno ad uno i membri della famiglia. Ad esclusione di Zoe. — Stupidi! — azzardò. E poi, con maggiore veemenza: — Stupidi vecchi rimbecilliti! — La sua bocca pareva una specie di oscilloscopio. Infatti Zoe vide che uno degli schermi in miniatura del biomonitor emetteva delle linee tenui, delicate e luminose, che attraversavano il riquadro del video: Toodles stava per avere una crisi isterica. Gettando un’occhiataccia e senza voltarsi, si trascinò pesantemente fuori dalla sala da pranzo. Dopo pochi minuti, le pallide linee smisero di agitarsi. No, Toodles non era morta, era solamente uscita dalla sfera di ricezione. Un altro apparecchio l’avrebbe subito rilevata. — Stupida donna — fece Paul, masticando. — L’ultimo commento di Jerry è stato villano — disse Helen. — Un genere di indelicatezza che Jerry solitamente non si concede. — Ti prego di crederle — aggiunse l’uomo dal volto cremisi. Negli ultimi tempi non è stata molto bene. Non immaginavo che i suoi nervi fossero al limite. Mi spiace, mi spiace veramente. — Jerry guidò la sua sedia a rotelle oltre la porta della sala. — Per la miseria — intervenne Zoe. — Cominciamo bene. — Tu non hai colpa — disse Parthena. — Era un po’ su di giri. Due settimane fa ha saputo che stavamo per trovare un sostituto di Yuichan, tutto qui. — Vero — commentò Helen. — Noi litighiamo come a volte fanno le coppie sposate da poco, ma di solito non davanti ad estranei e non molto spesso. Toodles è una persona simpatica. E le uniche spiegazioni che posso trovare per il suo comportamento sono i modi sgarbati dei nostri compagni e la sua suscettibilità. Essere corteggiata la rende sempre nervosa. Sempre. — Per quanto riguarda gli apprezzamenti che si è lasciata sfuggire — disse Luther, — quello è il suo stile. Non lo pensa veramente, anche quando è fuori di sé. — Stupida donna — ripeté il vecchio francese (o di qualunque nazionalità fosse). — Continuate così, e morirete prima che io… ma io non sto per morire. — Lui fu l’unico a mangiare tutto quanto c’era nel piatto. E quand’ebbe finito, s’inumidì le labbra sottili, e abbassò maliziosamente la palpebra arrossata sull’occhio color ambra: un cenno d’intesa, per Zoe. 5. Reminiscenza rotazionale Due ore dopo. Terrazzo della Torre dello Sviluppo Umano UrNu, nell’ala geriatrica. La temperatura si manteneva a 21 °C. Era calata la sera poiché i soli fluorescenti della città erano stati gradualmente attenuati. I Phoenix si erano riconciliati e adesso sedevano in semicerchio presso la balaustra della torre ad osservare la Biomonitor Agency nel West Peachtree e, dieci piani più sotto, un parco pedonale illuminato. C’erano tutti i Phoenix, ad eccezione di quell’eccentrico di Paul: lui non era ancora salito. Tuttavia Zoe smise di pensare a quel vecchio bizzarro. La volta della cupola era ampia e senza nubi, e lei non aveva mai visto un crepuscolo simulato così suggestivo. Là sotto, al Livello 3, non c’erano molte possibilità. Adesso spuntavano migliaia di deboli punti luminosi che brillavano nel cielo della città il cui colore sfumava nel violetto. Lo splendore di quella visione toglieva il respiro. Jerry Zitelman-Phoenix si portò alle spalle di Zoe con la sedia a rotelle. (Scivoli e ascensori gli permettevano di spostarsi in ogni parte del complesso.) — Ti chiedo scusa, Zoe, per le osservazioni inopportune che ho fatto in tua presenza. — Io cerco sempre di scusarmi direttamente con l’interessato. — Anch’io. Guarda, è tornata. — Infatti Toodles era lì, seduta con Luther, Parthena e Helen, intenta a raccontare altri particolari dei suoi acquisti pomeridiani. — Devo chiedere scusa anche a te, per la spiacevole situazione che si è creata — disse Jerry. — Ti chiedo di perdonarmi. Zoe accettò le sue scuse, e Jerry riprese a parlare. Le disse che ogni due settimane, il martedì sera (come in quel momento), i Phoenix avevano a completa disposizione quella parte riparata del terrazzo. Quella sera era dedicata al gioco di «reminiscenza rotazionale», e stavano aspettando Paul, il quale non partecipava mai, ma insisteva per essere presente ad ogni sessione. Le regole, spiegò Jerry, erano semplici e sarebbero state chiare una volta cominciato a giocare. Poi, indicando l’involucro oscurato che li sovrastava, il guscio simile ad un favo sotto cui tutti vivevano, disse che da giovane era stato un astronomo. — Anche adesso — continuò — di notte guardo lassù ed immagino le costellazioni che attraversano il cielo. Oh, Zoe, mi è chiaro come il sole, per dirla con un nonsense di Ferrand in versione Zitelman. Ma è vero, io riesco a vederle. Cassiopea, l’Orsa Maggiore, la Giraffa… Oh, le posso vedere tutte. La cupola non mi è d’ostacolo, Zoe, anche se non è certo un dono gradito. Anzi. Jerry continuò a parlare. Le disse che l’unico vantaggio che la cupola gli offriva era quello di poter immaginare con altrettanta facilità le costellazioni dell’emisfero australe mentre sfilavano, riflesse sul suo volto. Perciò a volte immaginava il Cane Minore, l’Idra, l’Unicorno. Erano tutte là, così meravigliose nel loro splendore che era certo che un giorno avrebbe guidato la sua sedia a rotelle fin lassù, in quella trama scintillante, e avrebbe collegato fra loro quei piccoli diamanti con la punta arroventata di un grosso sigaro. — I sigari non mi sono più permessi — disse. — Neppure quelli neutri, senza tabacco e nicotina, senza alcun aroma. E le stelle…? — indicò la cupola. — Ad ogni modo — commentò Zoe, — tre stelle le abbiamo. E si muovono. Jerry piegò all’indietro il capo dalla foltissima chioma, le guance paonazze si schiarirono nella tenue luce riflessa. — Ah, sì. La monorotaia è tutto ciò che abbiamo, Zoe. Stanno riparando i riflettori sulla cupola. Di notte mandano fuori le navette magnetizzate illudendoci, con questo affronto alla nostra memoria, che il cielo non sia stato rubato. Ma è suggestivo, sono d’accordo con te. — Aveva ragione. Stelle artificiali, solo tre, in uno zodiaco di metallo. Che cosa provavano gli uomini all’interno di quei carrelli rovesciati? Come faceva quella vecchia canzone? Mentalmente cominciò a canticchiarla: Vorresti una stella cavalcare? Raggi di luna a casa, di lontano, portare? — Dannazione a quel vecchio zombie! — esclamò Toodles, improvvisamente. — Cominciamo senza Paul, tanto lui non gioca. — D’accordo — fece Luther. — Cominciamo pure. Helen li convinse ad aspettare ancora qualche minuto. D’accordo con Zoe, perfettamente d’accordo. Lei ascoltò Jerry, il quale le raccontò di come venne coinvolto nel 1989 in un incidente automobilistico da cui uscì con le ossa rotte e paralizzato, quando la maggior parte delle vecchie interstatali stava andando in malora: pavimentazioni sconnesse, il ciglio infestato da erbacce, e lo spartitraffico invaso dai rovi. Da allora non fu più in grado di camminare. — Quando accadde, non avevo ancora avuto una relazione con una donna; e dopo sarebbe stato impossibile. A volte, la notte, piangevo. Come quel personaggio del libro di Hemingway, soltanto che lui non aveva le gambe rotte; si trattava di altro. Perciò non mi sono mai sposato, finché il dottor Tanner non mi ha ammesso qui, per le sue ricerche. Ho avuto tre mogli in una volta sola. Ed ora, a questa età e dopo la morte di Yuichan, sto aiutando le mie compagne a corteggiarne una quarta. Chi può affermare che non si tratti di una vita strana e imprevedibile, nonostante i nostri dolori e le nostre debolezze? — Non certo io — fece Zoe. — Non io. Jerry continuò raccontandole di come conseguì la laurea ed arrivò nella cupola insegnando astronomia con l’ausilio di manuali, proiezioni di diapositive e vecchi filmati. Aveva esercitato questa attività per quasi vent’anni, fino a quando la città decise che era assurdo pagare qualcuno che tenesse lezioni su di una materia di scarsa utilità per la nuova società. — Ffft! — fece. — Bruciato. Io ed altri insieme a me. Un intero programma stroncato. — Aveva dovuto vivere con la pensione per insegnanti e con i benefici della polizza futuro-sicuro in un cubicolo del Livello 6, finché… — Come va? — disse Paul. — Avete già cominciato? — Siediti — l’invitò Luther. — Dov’eri finito? Paul si passò le dita fra i ciuffi di radi capelli e si lasciò cadere con uno scricchiolio sul bordo della sedia fra Parthena e Zoe. — Tirate fuori qualcosa per la notte per la nostra ragazza. Non si è portata niente. — Guardò Zoe ed ammiccò. — Anche se potrebbe benissimo rimanere senza. — Sei proprio carino — disse Parthena. — Ma adesso giochiamo. Così cominciarono. Le regole erano queste: 1) Bisognava stare in silenzio quando la persona di turno pensava ad un episodio della Pre-Evacuazione che desiderava rievocare per sé o, meglio ancora, per sé e per gli altri. 2) La rievocazione di quell’episodio doveva essere fatta con un’unica parola di senso compiuto, da pronunciarsi chiaramente una volta soltanto. 3) si osservava ancora un po’ di silenzio, perché la parola avesse il suo effetto. 4) Non era valida una parola già pronunciata in precedenza. 5) Il gioco terminava dopo due giri completi. 6) Per evitare una deprimente nostalgia del passato, non era consentito menzionare o riproporre nessuna delle reminiscenze del gioco, prima o dopo le sessioni medesime. Helen, con una nuova macchina da scrivere Braille Gardner-Crowell, aveva il compito di registrare le dodici reminiscenze della serata e di rimproverare chiunque ripetesse qualcuna delle vecchie espressioni. Come Zoe scoprì più tardi, quando ciò accadeva venivano lanciate feroci accuse di senilità galoppante fra i partecipanti. Tuttavia, quella sera non vi era inquietudine. Era la prima volta che giocava, e non l’avrebbero fischiata, anche se la parola non fosse stata pari alle loro attese. — Tre mesi — disse Toodles. — Sono passati tre mesi dall’ultima volta. Yuichan era ancora ammalato. — Procediamo, allora — disse Helen. — Comincia tu, Toodles. Sul gruppo calò il silenzio. Le navette sopra di loro scivolavano lentamente lungo le pareti della cupola. Tre o quattro minuti dopo Toodles lasciò cadere una parola in quel cerchio tenebroso, il pozzo dei loro antichi sussurri: — Bazzecole — disse. Zoe notò che Paul aveva la testa piegata all’indietro, fino a toccare lo schienale, gli occhi spalancati e lucidi. Anche la bocca del vecchio era aperta. Se non si fosse sporto in avanti sarebbe caduto sulle mattonelle del terrazzo sottostante. Era il turno di Parthena. Tre o quattro minuti dopo la reminiscenza di Toodles, l’altra donna di colore disse: — Scup’nins. — Voleva dire scuppernongs. Una qualità di uva. Dopo che la parola ebbe prodotto il suo effetto, Luther disse: — Paul non gioca, Zoe. Tocca a te, adesso. — No, Paul non era sul punto di parlare: stava ancora ripensando alla parola di Parthena. Zoe era già pronta. Aveva pensato la parola quando Jerry le aveva spiegato le regole. Ma non voleva precipitarsi; non voleva far capire che ci aveva pensato dall’inizio del gioco (anche se ciascuno di loro aveva fatto lo stesso). Così attese. Poi, sporgendosi per guardare il parco pedonale più in basso, pronunciò la parola alla sua nuova famiglia: — Lucciole… 6 .Il Fujiyama e l’orpianola Nell’appartamento del quarto piano, i Phoenix dormivano in una camera comune di forma circolare, i letti erano disposti attorno all’apparecchiatura mobile del biomonitor, sistemata al centro (la prima delle tre su quel piano), che aveva già ripreso i suoi silenziosi controlli. Ciascun letto disponeva di un comodino, un cassetto per gli effetti personali e una sedia nelle vicinanze, nonché un paravento di tessuto artificiale che, con il semplice contatto, si sarebbe dispiegato automaticamente. Poiché nessuno sembrava usarlo, dopo aver ringraziato Paul per averle procurato una camicia da notte, si preparò ad andare a letto davanti a tutti gli altri. Era come avere sei Rabon nella propria stanza. Anzi cinque, perché Jerry era altrove. — Vuol stare un po’ solo, prima di coricarsi — disse Parthena. Ma cinque Rabon erano comunque molti, anche se abbastanza discreti da non tenerti gli occhi addosso. (Rabon non l’aveva mai fatto.) Ad eccezione, ancora una volta, del vecchio Paul. Ad ogni modo, non ci volle molto perché tutti scivolassero nel mondo dei sogni. Nossignore. A quanto sembrava, tutti tranne Zoe. Lei aveva anche sentito Jerry scivolare con un ronzio nella stanza dove tutti russavano e alzarsi dalla sedia a rotelle per mettersi a letto. In cinque o dieci minuti si infilò sotto le coperte. Soltanto Zoe aveva la mente lucida, e il corpo indolenzito lottava contro il desiderio di sprofondare nel sonno. Oh, Signore. Che giornata! E mentalmente cercò di riviverne ogni istante. Poi udì dei singhiozzi, e rimase ad ascoltarli a lungo. Era Toodles, due letti più in là. Toodles, che soffriva di cuore. Cercando le pantofole che non aveva, Zoe si alzò dal letto. Andò a piedi nudi fino alla seggiola di fianco a Toodles. Si sedette e scostò le ciocche umide e arricciate della donna. — Vuoi dirmi che cosa non va? Uuuuh, no-o. Lamenti soffocati, disperati. — Si tratta di ciò che è accaduto a cena, Toodles? Spero di no. Non vorrei sembrarti la Strega Cattiva del Nord. — Era una bugia bella e buona, se mai ne aveva detta una: una bugia innocua, comunque. I singhiozzi si attenuarono. — Non… è… per quello — riuscì a dire con voce soffocata. — Davvero… non è… per quello. — E quasi a confermare quanto diceva, si mise a sedere sul letto, arrotolandosi con cura attorno alla vita la camicia da notte che prima giaceva disordinatamente sulle coperte. — Allora, ti va di parlarne? Ora Toodles era un po’ più tranquilla. — Yuichan — disse. — Pensavo a Yuichan. Vedi questo indumento, Zoe… È stato lui darmelo. — Era troppo buio perché si potesse vedere con chiarezza, ma Toodles prese il vestito e lo mostrò a. Zoe, con le mani scosse da un occasionale tremito provocato dai singhiozzi. Ma Zoe avvertì solamente uno sgradevole e stantio odore di urina. — Ecco — fece Zoe, ed accese la lampada da lettura sulla spalliera del letto. Un cerchio di luce tenue e tremula illuminò la veste da camera. Helen l’avrebbe definita di pessimo gusto, e a ragione: su un lato dell’indumento c’era ricamato un monte coperto di neve; sull’altro (quando Toodle sollevò i risvolti gualciti per mostrarlo) c’erano le parole Monte Fujiyama. Un capo brutto e puzzolente, non importava come fosse ricamato o lo si profumasse. — Oh, so bene che non piace a nessuno — disse Toodles. — Ma mi ricordava Yuichan. Lo ordinò per posta a San Francisco quattro anni fa, quando seppe che nell’infermeria del ricovero si trovava una donna giapponese gravemente ammalata. Una come Yuichan. E lui regalò il vestito a quella povera donna. Due anni dopo, quando lei morì e suo figlio gettò via quasi tutte le sue cose, Yuichan si riprese il vestito e lo diede a me. Oh, mi stava stretto e puzzava di urina, d’accordo; ma sapevo con quale spirito Yuichan me l’aveva regalato, e io l’ho lavato e rilavato continuamente, al punto che temevo si strappasse. — Stese la veste da camera sulle ginocchia. — E questa sera… questa sera… mi ha ricordato Yuichan… intensamente. — Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si nascose il volto fra le mani. Il conforto che Zoe le diede fu di restarle seduta accanto, finché la povera donna, con il viso tirato e senza più tracce di mascara, gli occhi cerchiati e simili a due crateri, cadde in un sonno leggero. Ma il pomeriggio seguente, nella sala che chiamavano centro di ricreazione, Toodles sedeva all’orpianola a batteria e coinvolse tutti in una festicciola canora: esili corde vocali, tese allo spasimo, che cercavano di afferrare note ormai dimenticate. Infatti, soltanto Toodles aveva un’estensione vocale senza confronti, un contralto particolarmente dotato che poteva lanciarsi in un impervio glissando per passare subito con disinvoltura a una melodia in pianissimo. Guidava il loro canto con un braccio, mentre con la mano libera batteva sui tasti, premeva i pulsanti, azionava le levette e si divertiva con le percussioni. E nonostante le gambe appesantite non smetteva di pestare sui pedali, come un eretico sui carboni ardenti. L’intero appartamento risuonava della musica di Toodles, e Zoe, battendo le mani e gracchiando insieme agli altri, si chiese istintivamente se si fosse sognata, solo sognata, la disperazione notturna della chiassosa Phoenix. — Benissimo! — Toodles gridò fra un ritornello e l’altro. — Non siete contenti di essere troppo vecchi perché quegli asini che hanno approvato l’Editto di Soppressione possano venire qui per farci stare zitti?! Zoe lo era. Stavano facendo della musica illegale, canzoni fuorilegge, ritmi proibiti e moralmente riprovevoli. Vecchi tempi. Quando ripresero a battere le mani e a cantare, Helen spiegò a Zoe che Toodles un tempo era stata una capofila del nuovo swing, in una fumeria di New Orleans. — Nei primissimi anni del secolo — le bisbigliò Helen all’orecchio, mentre tutti insieme applaudivano l’orpianola che continuava a suonare. — A quarant’anni si occupava di una rivista di musica popolare indigena. A quarant’anni! Veramente professionale, come risulta dalle vecchie recensioni. — Dopo il ’35 quando il servizio d’ordine e i membri del consiglio cittadino cominciarono a temere disordini, questi spettacoli furono radicalmente soppressi, almeno ad Atlanta. Chi può sapere che cosa accadde nelle altre città? — Molto bene! — strillò Toodles. — Questa s’intitola «Ef Ya Gotta Zotta»! Risale agli anni venti… forza, tutti insiemeee! E tutti cantarono, con l’orpianola suonata con una mano sola, letteralmente con una mano sola, che pareva l’orchestra di un secolo prima, ormai defunta e dimenticata, di Benny Goodman, quella per intenderci dei gracchiami dischi di vinile. O forse era quella di Glenn Miller. Il ritornello era questo: Ef ya gotta zotta     Thenna zotta wa me: Durnchur lay ya hodwah     Oh tha furji Marie. Ef ya gotta zotta,     Then ya gotta zotta wa me! Mio Dio! Zoe ricordava l’intera canzone, ogni maledetta parola dei sette versi. Lei e Rabon avevano ballato sulle sue note; si erano scatenati a quel ritmo indiavolato nella rimodernata sala da ballo di Regency. Mio Dio, pensò: — «Ef ya Gotta Zotta!» Ma dopo l’ultimo intermezzo del coro, Toodles abbandonò quella retrospettiva del nuovo swing per una puntata in quel terrorismo sonoro che era la musica computerizzata «dura» tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta. All’inizio di questa deliberata cacofonia, il vecchio Paul smise di battere il tempo e la sua bocca si spalancò, come già aveva fatto durante il gioco della reminiscenza rotazionale. Gli altri, Zoe compresa, cominciarono ad agitarsi irresistibilmente nelle loro sedie. Toodles si mise a cantare quelle strane composizioni, e le cantò con una tale sicurezza che, guardando il suo viso rotondo e dalla mascella pronunciata, nonostante le rughe, i porri e le ridicole labbra chiazzate, ci si accorgeva che stava vivendo ogni nota, sillabando ogni inquietante parola e spremendola allo scopo di scatenare le sue paure irrazionali e quelle del suo pubblico. (Divertente: un film dell’orrore musicale.) Toodles cantava, cantava, cantava. «Incubo del guscio di noce», «Tomba dei Faraoni», «L’onda di marea cremisi» e «Il cielo all’esterno». Quando l’ultima nota dell’orpianola si spense, scrosciarono applausi fragorosi per Miz Joyce «Toodles» Malins-Phoenix, la quale, incredibilmente, arrossì. Anche Paul si unì agli altri, anche se si ostinava a battere i piedi come uno stupido invece di applaudire. — È il suo primo concerto da quando Yuichan è morto — disse Helen. — Ancora! — esclamò Jerry. — Ne vogliamo altre! — Hooooi! — fece Luther. — Non l’ho più sentita cantare e suonare così bene dalla Settimana di Fine Anno del ’38. — Mi è tornata la stessa voce che avevo a trent’anni — affermò Toodles, girandosi sullo sgabello. — È difficile da credere, e sembra una vanteria ma, per Dio, è la pura verità. — Puoi dirlo — fece Luther. — Però non abbiamo finito — disse Parthena. — Concludiamo al solito modo, prima di andare a mangiare. Toodles fu d’accordo e tornò alla tastiera. Suonò con entrambe le mani, ignorando i pulsanti, gli interruttori, le levette d’intonazione sulla consolle, ed eseguì una vecchia melodia, di quasi duecento anni prima. Cantarono tutti, in armonia. Come per «Ef ya Gotta Zotta», Zoe si accorse di ricordare le parole, tutte quante… ognuna di esse riaffiorava sulle labbra proveniente da un’epoca molto remota, totalmente estranea alla realtà del Nucleo Urbano, di Sanders e Lannie, o di Mr. Leland o del Ricovero Geriatrico. E non era l’età avanzata o la nostalgia a rendere vivido il ricordo delle canzoni (ad alcune cose non si torna indietro volentieri), bensì l’affermazione della sicurezza del presente: questo presente, questo stesso istante. Cantarono: Laggiù, lungo lo Swanee River     Lontano, molto lontano, Là il mio cuore sempre si volge,     Là dove stanno i miei cari. Cantarono anche la strofa che parlava di piantagioni, e il verso lamentoso: — Oh, negri, come piange il mio cuore —, compresi Luther e Parthena, i quali non si trovavano affatto a disagio. Un brano di Stephen Foster, ma non era il vero Stephen Foster, perché era eseguito da un’orpianola. Bastoni e pietre, pensò Zoe, e i nomi non potevano mai… Accidenti, soltanto una settimana prima, in preda ad un momentaneo malessere, sua figlia l’aveva chiamata strega mummificata. E lei aveva reagito con una stupida risata. Che altro avrebbe potuto fare? Quando sei a due passi dal traguardo, tu ridi se i concorrenti che hai battuto ti lanciano degli insulti. Lo devi fare. E nell’esecuzione malinconica di un’opera morta-e-sepolta di un compositore sicuramente morto-e-sepolto, anche Toodles rideva con tutto il corpo. Era a due passi dal traguardo. Tutti loro lo erano. Ma di certo la meta verso cui correvano non era la morte, non come l’intendeva Zoe. Nossignore. Era qualcosa di completamente diverso. 7. Parthena Quella sera, dopo la festa canora accompagnata dall’orpianola, Parthena, Helen e Jerry si occuparono della cena. E dopo mangiato Zoe li aiutò a sistemare il piccolo locale attiguo alla sala da pranzo (mentre Lannie e Sanders, tre Livelli più sotto, nel loro cubicolo disponevano solo di un cucinino senza sala da pranzo). Era stata una bella giornata, una giornata indimenticabile, se mai ne aveva vissuta una. Non da quando Rabon… — Sai trapuntare? — le chiese Parthena, dopo aver ritirato l’ultima stoviglia di porcellana. Ma in quel momento l’attenzione di Zoe era rivolta altrove. Jerry, nella sua sedia a rotelle, passava i piatti a Helen, e la donna cieca li sistemava con ordine nell’armadietto di plastica sopra il lavandino. Prima di cominciare, Helen aveva preso dalla tasca un paio di lenti scure, unite apparentemente solo da un ponticello metallico. Munita di questi occhiali, sembrava riuscisse di nuovo a vedere. Era la prima volta che se li metteva in presenza di Zoe. — Ehi, Zoe — disse ancora Parthen. — Sai trapuntare? — Intendi unire i quadrati, e poi cucirli insieme? Può darsi. Esagero sempre, quando parlo delle cose che faccio. Mi piace bluffare. — Di’ un po’, ancora non sappiamo che cosa sai fare. Dove lavoravi prima di avere il sussidio? — Fotografia — disse Zoe. — Scattavo foto. Sia soggetti in posa che in movimento. Ed ero anche brava. A dir la verità, qualche foto usciva un po’ mossa. Tutti risero. Zoe raccontò di come lei e Rabon avessero lavorato in équipe per il Journal/Constitution e per uno dei videomedia affiliati; ma non scrivevano i testi (io non avevo molta istruzione, e Rabon non voleva mettere la sua al servizio di quello scopo), ma si davano da fare con le macchine fotografiche, i video portatili e le varie stampatrici istantanee. Lei se la cavava meglio di Rabon, ma dal ’01 al ’09 si era assentata quattro volte dal lavoro a causa della maternità e lui aveva ottenuto un maggior numero di commissioni in virtù del fatto che, per usare le sue parole, non era suscettibile di gravidanza. Tutto era stato previsto, e dopo la nascita di Melanie il Programma di Cura Infantile UrNu li aveva messi in grado di proseguire la loro carriera. Più o meno. Dovettero impiegare una parte consistente dei loro guadagni perché Lannie potesse essere accudita per quattro ore al giorno, quattro giorni la settimana, mentre lei e Rabon si dividevano le ore restanti, lavorando insieme sempre più raramente. Ma lei e Rabon ci riuscirono, e il fatto che Lannie fosse figlia unica l’aveva resa una ragazza un po’ viziata, qualche volta dolce e più spesso petulante. Quanti ritratti aveva fatto Zoe alla piccola, viziata Lannie. Quella mattina Zoe aveva chiesto per telecom a sua figlia di portarle soltanto i pochi indumenti che teneva in camera, nell’armadietto, nonché le foto appese alle pareti, e Melanie aveva risposto che glieli avrebbe portati: forse Mr. Leland li aveva già ricevuti. — Bene, se sai scattare foto — disse Parthena, — puoi aiutarci a togliere quel nuovo stendardo che hai visto sul telaio, nella sala comune. Adesso muoviamoci, Zoe. Terminarono di sistemare la cucina. Quindi Parthena li precedette lungo il corridoio: aveva settantasei anni, e la sua figura era eretta e sottile come un manico di scopa. — Ho altro da fare, stasera — disse Jerry. — Scusatemi. — Scivolò via nella sua sedia a rotelle e scomparve in una stanza nella quale Zoe non era ancora entrata. Luther e Toodles si trovavano già vicini al telaio quando arrivarono: una mostruosa truttura di plastica su cui erano rigidamente stesi e fissati i riquadri cuciti, l’ovatta sintetica dell’imbottitura e il sottofodera. Zoe l’aveva notata quel pomeriggio, durante la festicciola musicale (un aereo dei fratelli Wright, realizzato con scarti da cucito), ma era sistemato dietro di loro e parzialmente nascosto da un paravento mobile, e nessuno si era preso la briga di spiegarle il suo scopo o la sua funzione. Ora il paravento venne fatto scivolare lungo il muro, e Toodles e Luther sedettero ai lati opposti del telaio, facendo passare gli aghi attraverso i tre strati di tessuto. Helen, che ancora portava gli occhiali, sedeva tra i due, e Parthena e Zoe si misero sul lato del telaio che era piegato come un alettone. Era il 1903, e loro erano Orville e Wilbur, i folli piloti di Kitty Hawk, dove le sabbie del tempo si erano trasformate per magia in una superficie di linoleum. — Helen — azzardò Zoe. — Con quegli occhiali sembra che tu intenda farci decollare fuori di qui, in cima alla cupola. — Oh. Poteva dire una cosa del genere ad una persona cieca? Helen sollevò lo sguardo e fissò Zoe. Vista di fronte, gli occhiali (o lenti, o binocoli) le conferivano non tanto l’aspetto di un pilota di biplano, bensì di un ostile mostro spaziale. — Non sono orribili? — disse Helen. — È il motivo per cui non li porto sempre. — E con mossa esperta cominciò ad infilare l’ago negli strati di tessuto, estraendolo dalla parte opposta. Parthena mostrò a Zoe come fare, dandole un ago e un ditale, e le fece osservare la sua tecnica. — Io ho insegnato a cucire a tutti gli altri… tranne che a Paul, lui non ama cucire e preferisce trascorrere i fine settimana pensando a come diventare immortale. Jerry si è seriamente impegnato ad imparare. Del resto è quasi sempre presente. Adesso infila il ditale sul pollice, ragazza, o ti pungerai con l’ago. Guarda me… Zoe aveva cucito altre volte, in precedenza, e se l’era sempre cavata abbastanza bene. Calma, si disse, prenditela con calma; ed imparò piuttosto rapidamente a cucire come loro, unendo quei riquadri dai colori vivaci — giallo, verde e azzurro, secondo disegni floreali e a zigzag — e poi applicandoli alla fodera che ricopriva l’imbottitura. All’inizio occorse molta concentrazione, come per un pilota in fase di decollo; poi, una volta saliti in quota, diventava un volo senza problemi, rilassante. Nessuno parlava. Nessuno. Quando mai si era sentita così serena e tranquilla? Sì, serena e tranquilla, ma con la sensazione di un piacere quasi fisico che le faceva scorrere deboli brividi lungo la schiena. La calma che regnava nella stanza era parte di quel piacere. Poi Parthena cominciò a parlare, ma in un certo senso senza violare il silenzio in cui stavano lavorando: — Ero solita fare questo lavoro su a Bondville, quando mio figlio Maynard era molto piccolo e la costruzione della cupola non era neppure a metà. Oh, poi il vento cominciò a soffiare, e non c’erano cupole a fermarlo; allora noi usavamo queste trapunte per coprirci, e non per stenderle su questi vecchi muri scalcinati. Ricordo ancora come Maynard, mentre lavoravo, volesse infilarsi sotto al telaio, un telaio di legno che aveva costruito mio marito, camminando avanti e indietro, cosicché si vedeva solamente la sua testa spuntare da un capo all’altro del telaio, su e giù, finché dava l’impressione di voler sbucare fuori. Ridere? Oh Dio, di solito ridevo di lui con un certo risentimento, perché non capiva quanto era buffa la sua testolina. La sua risata contagiò anche Zoe. — Adesso ha tre bambini, Georgia, Mack e Moses, e sua moglie che fa bene questo lavoro quanto me; forse meglio; lei è così dinamica. Cucirono per un’ora. Quando smisero, Parthena insistette perché Zoe tornasse al dormitorio a vedere le foto dei nipotini. — Dimmi un po’, tu ami le foto e i bambini, vero? — Così Zoe la seguì. Si sedette su una seggiola mentre Parthena, dopo aver abbassato il suo letto ad un’altezza comoda, si mise a sedere sul bordo, come una cicogna color ebano. — Questa è la mia impertinente Georgie — disse, porgendole la foto di una bella ragazza negra. — Adesso ha dodici anni ed è una ragazzina molto sveglia. Sta per andarsene da Bondville, e solo con i propri mezzi, con il suo fascino e la sua abilità. — I due ragazzi erano più cresciuti ed avevano un aspetto qualunque, e probabilmente erano persone qualunque. Nessuno di loro era più un bambino. — Voglio solo che tu sappia che avevo una famiglia, prima dei Phoenix. Io non sono come Luther e la povera Toodles che fino a sessant’anni hanno sofferto per non aver mai trovato una vera famiglia. Tuttavia, adesso hanno noi, e noi abbiamo loro, ma hanno fatto una lunga strada, Zoe, molto lunga. Anche Jerry. A volte prego per ringraziare della fortuna che ho avuto. — Non ho mai pregato molto — disse Zoe, — ma ne ho provato il desiderio. — Era come amare qualcuno che non ti permette di dichiararlo, ricordò Zoe. Le due donne continuarono a parlare mentre gli altri si preparavano per andare a letto. Parthena mostrò a Zoe alcune dentiere che le avevano fatto nel 2026, e volle che le prendesse e le esaminasse, quasi fossero i denti di un australopiteco. — Sono pulite — disse. — Non le ho più messe dal ’29. Il motivo per cui te le ho mostrate è che sono state fatte dal dottor Nettlinger. — Chi? — Gerard Nettlinger. Ti ricordi, Zoe. Quello che sparò a Carlo Bitler. Si alzò durante la riunione del Consiglio Urbano e sparò a quel sant’uomo. Il giorno in cui l’ho saputo, mi sono tolta le dentiere e non le ho più rimesse. Comunque, erano scadenti. Mi sono limitata a conservarle, così un giorno Maynard potrà venderle. La gente diventa follemente avida quando si tratta di cose appartenute a degli assassini. Impazzisce. — Già — confermò Zoe. — Mio padre diceva che era il nuovo culto. — Sciocchezze. Sono tutte cose prive di valore. Chissà come, poi, la loro conversazione andò a finire sulle ragioni per cui i membri della famiglia d’origine avevano scelto Phoenix come nome del gruppo, anziché Sweetheart oppure O’Possum. Zoe aveva creduto che fosse perché a volte Atlanta veniva chiamata la Città della Fenice, dato che era rinata dalle sue stesse ceneri, dopo la Guerra Civile (che suo nonno, negli anni ’80 insisteva nel chiamare Guerra Tra gli Stati, come se ciò facesse una gran differenza). E quando, in quel decennio che collegava il nuovo secolo al precedente, venne costruita la cupola, Atlanta resuscitò. Era questa una delle ragioni del gruppo? — Sì, anche questa — disse Parthena. — Ma non solo. C’è un altro motivo: tutti noi risorgiamo dalle nostre ceneri quando sottoscriviamo il contratto. Di nuovo carne ed ossa, Zoe, come Gesù. — Sì, anch’io penso che sia per questo. E ciò rende il nome veramente appropriato. — Già. Ma a Paul piace perché la fenice era un uccello egiziano che era immortale. Sembra morire, ma poi risorge, e la sua grazia nonché la bellezza delle sue piume rimangono immutate. — Allora sarebbe stato felice con la Chiesa Orto-Urbanista. Essa sostiene che gli esseri umani risorgono dopo la morte. — Paul dice che non è la stessa cosa. Perché gli uomini muoiono veramente, non fanno finta, e quindi non hanno un corpo a cui tornare. Paul è molto attaccato al suo corpo. — E tu che ne sai? È bello sapere che lui non è solo uno Stupido Vecchio. — Oh, anche lui lo sembra — mormorarono all’unisono. — Ma c’è un’altra cosa che lo fa riflettere, dubitare ed esitare. La fortuna della Fenice. La maggior parte di noi ha passato i suoi guai. Ma Paul ha più di ottant’anni e non ha mai avuto delle opinioni costanti da quando ci siamo sposati. Mancò poco che Mr. Leland non lo accettasse per il suo programma, cinque anni fa. Fummo noi a convincerlo. E alla fine Mr. Leland lo prese, nella speranza che li riportassimo sulla strada giusta. E noi lo abbiamo fatto, e anche piuttosto bene. — È stato Paul a suggerire il nome? — No. O forse sì. Non ricordo esattamente. Ciò che ricordo è che il nome andava bene, era appropriato per ciascuno di questi motivi. Un altro ancora, poi, e forse il più valido, era una storia che mio nonno aveva ascoltato da suo padre. Parlava di una ragazza schiava, molto carina, che aveva il compito di curare il bambino del padrone, del «badrone», come lo chiamava il padre di mio nonno. «Bene, quel bimbo cadde dalle scale proprio mentre la ragazzina stava badando a lui: aveva distolto lo sguardo per un minuto e il piccolo era caduto dai gradini e si era messo a strillare. Era spaventato, ma non aveva niente di rotto. Quando le donne bianche all’interno della casa udirono le grida, cominciarono a piangere e a disperarsi come se il bambino fosse rimasto ucciso. E continuarono così finché il «badrone» in persona non sopraggiunse, e domandò spiegazioni. Quando fu messo al corrente dell’accaduto, prese una tavola e colpì la giovane schiava sulla testa, uccidendola. Poi chiamò a sé un gruppo di negri (stavolta era mio nonno a chiamarli in questo modo) e ordinò loro di gettare la ragazzina nel fiume. La madre implorò, pregò e supplicò il padrone di risparmiare sua figlia, ma lui non le diede ascolto e ripeté l’ordine. «Adesso la storia diventa magica, Zoe. Il nome della ragazzina era Phoebe, e cinque schiavi con la madre la condussero al fiume; il più robusto di loro stava davanti agli altri altri reggendo la piccola Phoebe, la cui testa ciondolava coperta di sangue, lugubre e gelida. Questo negro corpulento la gettò nel fiume come gli aveva ordinato il padrone, mentre la madre di Phoebe gemeva e si percuoteva, e poi costui seguì la ragazzina e si tuffò nell’acqua, annegando. Anche gli altri decisero di imitarlo. Ed entrarono nel fiume, per ultima la madre, pregando Dio che li chiamasse a sé tutti insieme. «La notte successiva, i coloni bianchi che abitavano la grande casa, mentre stavano passeggiando lungo il fiume, tutt’a un tratto scorsero sette piccoli uccelli dall’aspetto triste che spiccarono il volo dall’acqua, in direzione della luna. Più si spingevano in alto e più diventavano grandi e splendenti, finché alla fine rimasero nel cielo come stelle, e tuttora stanno sopra la grande casa dei coloni bianchi. Diventarono una nuova costellazione, quella che tutti nella piantagione chiamano la Fenice, solo che essa non si muove come le altre, ma se ne sta immobile con le ali tese, lontana e sicura sopra la casa del «badrone». «E questa è la storia, Zoe. Jerry dice di non aver mai sentito parlare di una costellazione della Fenice. Ma con quella cupola lassù, chi riesce a ricordare esattamente com’è il cielo? Nessuno, proprio nessuno. «E io credo che esista, lassù, da qualche parte. 8. Visione futura: alla fine dell’Inverno Quasi tre mesi (secondo il vecchio calendario) dopo essere entrata nel Ricovero Geriatrico non come paziente o prigioniera, ma come una vera e propria libera residente, una sera Zoe andò a sedersi sul terrazzo e ripensò alle fasi del suo lento ingresso nell’unità Phoenix. Aveva già cenato: nello stomaco e nell’intestino c’era un piacevole tepore. La famiglia avrebbe deciso abbastanza in fretta. Quando si precipita verso i settanta o gli ottant’anni, come verso qualunque altra cosa che non sia la morte, i lunghi corteggiamenti sono folli quanto quelli impetuosi. Tre mesi erano tanti per decidere, forse troppi. Comunque adesso la stavano formalmente prendendo in considerazione, e poteva darsi che, mentre le offrivano quest’ora di solitudine, questo momento retrospettivo sul terrazzo oscurato, loro stessero già iniziando la procedura per la decisione ufficiale. C’era da dubitarne? Non erano stati impegnati in questo senso durante i giorni che Zoe aveva vissuto al loro fianco, partecipando alla loro vita? Quella sera vide una navetta, e dei colombi che volavano in stormo descrivendo ampie volute attorno ad un’insegna al neon della Coca-Cola. Uno sguardo a quanto era accaduto durante gli ultimi tre mesi V. Cal.: come prima cosa aveva scoperto che le Unità Settigame della Torre non risiedevano qui come semplici beneficiarie, come moltissimi poveri mendicanti che percepivano il sussidio di vecchiaia. La maggior parte di loro aveva versato regolarmente denaro per i programmi medicaid e futuro-sicuro della città; dal 2035, l’anno in cui erano cominciati gli studi del dottor Leland, i contributi trimestrali di tutti i residenti del ricovero erano stati messi in comune e investiti. L’operazione avvenne col consenso dei residenti, e solo un numero esiguo di essi si rifiutò di affidare la gestione dei loro interessi alla Commissione per lo Sviluppo Umano UrNu. E contro questa minoranza non vi fu alcuna ritorsione. In ogni caso i dividendi degli investimenti comuni e gli interessi ricavati da operazioni sicure provvedevano al vitto e all’alloggio dei residenti e garantivano loro anche dei fondi personali ai quali attingere. Inoltre costituivano un aiuto economico per le famiglie superstiti di coloro che venivano ammessi a collaborare nella ricerca. Ogni famiglia aveva il suo contabile: Helen era quello dei Phoenix e, inforcando quei piccoli occhiali scuri che l’aiutavano a vedere, aggiornava i registri come una esperta C.P.A. (anche se ora la sigla era C.U.A., ricordò Zoe). Altre volte usava la sua macchina da scrivere Braille. Perciò gli abitanti della Torre non vivevano di sussidi, benché Zoe dovesse ammettere che la buona amministrazione del ricovero era dovuta all’impegno e all’abilità affaristica di chi gestiva i loro beni. Ma questo inconveniente era parzialmente evitato sia dal contabile di ogni Unità Settigama che faceva parte della Commissione di Pianificazione Finanziaria, sia dai ragguagli forniti dalle previsioni di mercato elaborate dai computer. Giù al Livello 3 con Sanders e Melanie, i dividendi trimestrali venivano divorati come farina d’avena speziata solo un giorno o due dopo l’emissione degli estratti conto del programma futuro-sicuro. I Noble avevano versato l’intero importo, senza neppure una ricevuta, per garantire a Zoe il privilegio di vivere insieme a loro. Solo l’arrivo del bambino e la prospettiva di una restituzione totale della somma da parte della commissione li avevano indotti a liberarsi di Zoe. Come uno scambio di prigionieri, o la vendita di uno schiavo decrepito e ribelle. Sissignore, pensava Zoe: venduta lungo il fiume. Ma un fiume da cui era possibile volare via come un uccello luminoso, stillante di luce come se fosse acqua. Zoe era un vecchio uccello; un uccello di fuoco rinato nel Lete, ovvero nella negligenza e trascuratezza di Sanders e Melanie. — Uno sfogo di autocommiserazione — disse Zoe a voce alta, rimanendone sorpresa. Sopra di lei, la navetta illuminata aveva quasi raggiunto l’apice della cupola. Che altro ricordava? Che altro? Un mucchio di cose. Aveva conosciuto i membri di altre unità settigame, gli O’Possum, i Cadillac, i Greypanthers e, oh! anche tutti gli altri. C’era stato un party in giardino, un sabato sera, con rinfreschi, musica, e frivoli addobbi di carta. Gli assistenti del Ricovero avevano chiuso le finestre del patio, avevano provveduto ad isolare acusticamente le stanze del settore di cura intensiva, e poi tutti quanti se ne erano andati in città. Era presente anche il giovane Leland, dietro loro invito, e nessuno dei Phoenix, tranne Paul, se ne andò a dormire prima delle quattro del mattino. Dopo mezzanotte, Toodles aveva trascinato tutti in un’allegra, cacofonica versione di «Ef Ya Gotta Zotta». Poi, c’erano le domeniche pomeriggio, trascorse da sola con Paul o Luther e qualche volta, ma solo qualche volta, con una delle ragazze. Durante la settimana avevano visitato il Museo d’Arte di Atlanta (— Maledettamente noioso —, aveva detto Paul), la Consolidated Rich’s e i mercatini delle pulci nel parco pedonale. Quindi andarono due volte all’opera (il teatro aveva una struttura circolare), dove videro un paio di olofilm interessanti, approvati dal consiglio. Non furono male: senza trama e un po’ ingenui, ma discreti. Nel loro appartamento del quarto piano potevano proiettare vecchie pellicole bidimensionali; e proprio a cominciare dal giorno dell’arrivo di Zoe, i Phoenix avevano organizzato un ciclo dedicato a Rock Hudson e un seminario scherzoso intotolato «Estetica del Cinema vietato ai minori alla fine del Ventesimo secolo», durante il quale Jerry tolse l’audio e si mise a dissertare in modo parodistico, servendosi del fermoimmagine e di una freccetta indicatrice. Dopo una di queste lezioni, quando il terrazzo rimaneva a loro disposizione, Luther e Zoe avevano preparato un campo da croquet; e tutti, tranne Jerry, con una temperatura di 23 °C (benché i meteorologi avessero previsto uno o due giorni di frescura), tutti giocarono senza vestiti! Nudi, come diceva Helen. E quella era stata una delle poche occasioni che non richiedevano una particolare attenzione ai dettagli (come cucire, ritirare i piatti, prendere dei libri), occasioni in cui Helen doveva mettersi gli occhiali. Soltanto gli occhiali, se non si conta il braccialetto trasmettitore. L’idea era stata di Toodles, che si era ispirata ad una vecchia antologia di racconti, e Paul l’aveva caldamente appoggiata. Così Zoe, come una ragazza che si volesse abbronzare nei pressi della parete della cupola, si tolse il vestito, la biancheria e le inibizioni, e lasciò che l’aria tiepida accarezzasse la sua pelle sensibile a ogni suo movimento deliberato. Tanta allegria. E nessuna ripugnanza per i loro corpi smunti e avvizziti; c’era invece un’insolita tenerezza che si agitava sotto l’apparente allegria. Dopo tutto, che importanza avevano i calli, le vene varicose e la pelle flaccida? Zoe aveva una risposta: quella era una conseguenza dell’età e del loro spiccato senso di comunità, sia che fossero maschi o femmine. Infine, quel giorno, si dimenticò delle sensuali carezze del vento della cupola, si concentrò nel gioco, e si arrabbiò moltissimo quando Parthena tirò la palla in una posizione ingiocabile. Sissignore: quella fu una giornata proprio divertente. E che altro ricordava? Be’, i Phoenix le avevano dato una macchina fotografica per istantanee e lei, per la prima volta dopo dieci o quindici anni, aveva ripreso a scattare foto. Era una vecchia Polaroid, ancora perfettamente funzionante, e la prima idea di Zoe fu quella di ritrarre in bianco e nero i volti della sua nuova famiglia. Foto in posa, alcune di sorpresa, riduzioni e ingrandimenti: ritratti di gruppo, primi piani, sovrimpressioni, meditazioni semiastratte. Le migliori vennero esposte nella sala comune. Questo locale era diventato la Galleria dei Phoenix, la quale fu addobbata su entrambi i lati con due brillanti stendardi trapuntati. Paul e Toodles andavano molto orgogliosi di alcuni ritratti, e a volte, contemplando i loro preferiti, cadevano quasi in trance: ragazzini che ammiravano se stessi nello specchio. Vanità, vanità, disse qualcuno, ricordò Zoe. Helen invece non si mise mai gli occhiali per guardare la sua immagine fotografata, benché avesse un motivo più valido di quello di Paul o di Toodles. Zoe un giorno le chiese perché. — È da trent’anni che non guardo il mio volto — disse, — perché sono soddisfatta della mia immagine di quando avevo trent’anni, e che ancora conservo qui dentro. — Si batté un colpetto in testa. Poi mostrò a Zoe una vecchia foto che mandava riflessi nella luminescenza della stanza: mostrava una donna la cui innegabile bellezza era quasi disgustosa. — Io posso sentire come sono oggi. — disse Helen. — Non ho bisogno di guardare. Anche così, le foto di Helen fatte da Zoe non le rendevano un cattivo servizio; infatti, erano oggetto di devota ammirazione da parte degli uomini, e di Paul in particolare… cioè, quando non era ipnotizzato dai propri occhi color ambra, dalla sua immagine proiettata sulla celluloide. Be’, perché no? Le foto di Zoe erano davvero straordinarie, ed era lei stessa a dirlo, in questo confortata dal giudizio degli altri. Il mese di Primavera si stava avvicinando. Che cos’altro riusciva a ricordare dell’Inverno trascorso al Ricovero? Le visite di Melanie e Sanders. La prospettiva di avere un nipote. Questo pensiero la eccitava, la stimolava come l’aria sul suo corpo nudo, e solo per questo pregustava le visite, due volte la settimana, della figlia e del genero. No, non era vero. Era Lannie che desiderava vedere più di ogni altra cosa, sia che portasse una creatura in grembo oppure no. Sua figlia Lannie era carne della sua carne, nonché del defunto Rabon: era sua figlia. Le riusciva difficile sopportare soltanto il fatuo Sanders, eppure in vita sua, non aveva mai osato chiamarla con un appellativo tanto brutale come strega mummificata. Che cosa avreste fatto, allora? Dal canto suo, Zoe non andò mai a trovarli nel cubicolo del Livello 3; così, quando venivano a trovarla, per adempiere malvolentieri al loro dovere di figli, lei li riceveva in quel cortile interno dove loro avevano decretato la sua condanna. Questo fatto metteva Sanders a disagio: strascicava le scarpette da passeggio sulla ghiaia e muoveva il capo come se stesse cercando il primo vecchio pazzo del ricovero che avesse voluto sfruttare la posizione favorevole del suo balcone per sparargli con un fucile a pallini o ad aria compressa. Un innocuo passatempo per Zoe, che osservava suo genero con la coda dell’occhio, mentre si informava sulla salute di Melanie, se le fosse passata la nausea mattutina (— Ci sono le pillole per quella, mamma! —), se il test Jastov-Hunter avesse stabilito il sesso del nascituro… e altre confidenze del genere. Ma lei non aveva mai approfittato della sua libertà per far loro visita al Livello 3, e d’altra parte loro non l’avevano mai invitata. Nossignore. Neppure una volta. Zoe piegò il capo all’indietro e notò che la navetta che aveva seguito con lo sguardo adesso era scomparsa. Oh Signore, non si era trattenuta sul tetto della Torre un po’ troppo a lungo? Quanto tempo era passato? I Phoenix stavano prendendo una decisione su di lei. Ecco tutto. Il risultato era forse in dubbio? Mr. Leland l’avrebbe mandata in un’altra unità settigama incompleta (se mai ne esisteva un’altra) a causa di un solo voto contrario? Come Mr. Leland le aveva spiegato, potevano benissimo rifiutarla. Che cosa avrebbe provato nel caso che l’avessero fatto? E se l’avessero accettata, voleva veramente contrarre matrimonio coi Phoenix, unirsi a loro in un nuovo contratto? Be’, era semplice rispondere a tutto ciò: la risposta era sì: sì, lei voleva sposarsi con Luther, Parthena, Toodles, Paul, Helen e Jerry. E la ragione per cui lo desiderava era altrettanto semplice: ne era innamorata. 9. Un pomeriggio con Luther Durante la prima domenica trascorsa coi Phoenix, Toodles disse a Zoe che, nonostante fosse il suo turno di passare il pomeriggio con Luther, sarebbe stata contenta se fosse andata lei al posto suo. — Non mi sento molto bene — spiegò. — E oltretutto per me questo è l’unico modo per essere veramente ospitale, non pensi? — Seduta sul letto, con le spalle coperte dall’orribile vestito Fujiyama di Yuichan, Toodles stava mangiando una brioche che un servomeccanismo simile ad un carrello aveva portato dalla cucina nella camera da letto comune. Un po’ di gelatina di pesche sintetiche le era finita sul labbro superiore e le aveva disegnato un baffo candito; Zoe cercò un tovagliolino per ripulirla. — Se davvero non stai bene, perché ti ostini a mangiare dolci? Toodles ammiccò. — Conosci il vecchio detto: la frutta in gelatina è come una medicina. Io la prendo adesso, così non avrò bisogno di un’altra dose questo pomeriggio. — «Passare il pomeriggio» significa ciò che i giovani sfaccendati chiamano «rosolarsi»? — Perché lo aveva chiesto? Conosceva già la risposta. Parthena e Helen si trovavano fuori, da qualche parte nel West Peachtree per assistere a una funzione Orto-Urbanista; Paul era sveglio nella camera di fronte, e Jerry e Lutner si erano entrambi alzati presto per scendere nell’ingresso, verso la sala comune. Zoe aveva declinato l’invito di andare alla funzione con Parthena e Helen. Ma adesso avrebbe voluto essere insieme a loro. — Tu non sei un tipo sveglio, Zoe — disse Toodles. — Avrei dovuto essere più esplicita, ma questo mette in imbarazzo Errol. — Errol? Dopo aver scostato le coperte e aver disteso la gamba appesantita, Toodles posò il piede calloso sul piano del servomeccanismo. — Errol — ripete. Il carrello ebbe un sussulto e si ritrasse, ma Toodles fu pronta a levare la gamba, evitando una caduta rovinosa. Una ciambella cadde a terra. — Errol è capriccioso… Non pensi di risparmiarti per dopo la cerimonia del contratto? — Be’, ho dovuto risparmiarmi così tante volte che ora i miei interessi sono ben più cospicui dei miei principi. — Quella era la battuta finale di una storiella che Rabon raccontava spesso. Non si confaceva al carattere prudente e persino un po’ scettico di Zoe, ma si addiceva perfettamente a quello di Toodles: lei ne fu compiaciuta. Mi diverto sempre con il mio pubblico, pensò Zoe; non se ne può fare a meno. E poi ad alta voce, cercando di rimediare, — Non sono mai stata una che si lascia baciare al primo appuntamento, Toodles; non sono il tipo. — Oh, neppure io. Tuttavia hai già dormito nella stessa camera coi Phoenix. Non è come se fossi andata a letto con qualche sporco ruffiano. Finalmente si pulì il baffo di gelatina dal labbro superiore. — Ti prego, dimmi di sì. Luther se la prende facilmente. — Sfiorando il suo piccolo, dorato telecomando, Toodles richiamò Errol (il quale, Zoe notò con un certo fastidio, era un piagnucolone) più vicino al letto, per poter afferrare un altro dolce. — E va bene — disse Zoe, ma come se fosse stato qualcun altro a rispondere. Così quel pomeriggio lei e Luther passeggiarono per i cortili pedonali all’esterno del Ricovero Geriatrico e poi si fermarono a pranzo in un piccolo ristorante che pareva interamente rivestito di specchi; era nascosto sotto il cornicione di pietra di un edificio molto più alto, alle finestre c’erano delle verdi tapparelle di vimini per schermare la luce abbagliante delle lampade diurne della cupola. Rabon avrebbe detto che esse conferivano un’atmosfera particolare al locale. Presero posto in un divanetto di finta pelle, fiancheggiato da due felci che impedivano di vedere l’entrata, e bevvero scotch e acqua in attesa del cameriere per le ordinazioni. Un brindisi. Be’, era una cosa che gli Editti di Soppressione non avevano dichiarato illegale. Si poteva bere tranquillamente dopo aver assistito alle funzioni Orto-Urbanistiche e, a quanto pare, era esattamente ciò che stava facendo la metà delle persone nel locale. L’altra metà si divideva dei narghilè, lasciando che le esili volute di fumo scivolassero fra le felci decorative. — Il cibo è buono — disse Luther. — Qui sanno come procurarselo. — Zoe notò che era un po’ nervoso. Teneva appoggiate le sue grandi mani sul tavolo, le lasciava cadere sulle ginocchia, beveva un sorso del suo drink, e poi tornava a posarle goffamente sul tavolo. — Sei seccata dal fatto che Toodles ti abbia messo in questa situazione? — chiese, le sopracciglia aggrottate in modo ridicolo. — Luther, sono stati mia figlia e mio genero a mettermi in questa situazione, e non Toodles. E loro due non si rendono neppure conto del favore che mi fanno. Queste parole lo tranquillizzarono, anche più dello scotch. Poi le rivolse alcune domande sulla sua famiglia e le parlò di sé. Arrivarono le portate: un menù vegetariano a base di fagioli, zucchine, pomodori (cotti) e svariate qualità di verdure ibride, il tutto proveniente da colture idroponiche; Luther continuava a parlare, tra un boccone e l’altro. Un borbottio ovattato. — Sono nato lo stesso giorno dell’assassinio del dottor King — disse ad un certo punto. — Questo spiega il mio nome. Ma la cosa peggiore è che ho vissuto abbastanza per vedere ripetersi quel genere di cose, prima della costruzione delle cupole, e anche dopo. Non avevo ancora sei anni quando vidi un giovane sparare alla moglie di Martin Luther King, Sn., e a molte altre persone proprio nella sua chiesa. Che è anche la mia chiesta. Poi, altri morirono dopo che la cupola venne ultimata. L’ultimo è stato quel giovane Bitler e sono ormai undici anni da quando abbiamo sfilato l’ultima volta per seppellire qualche brav’uomo. «Sai, quell’anno ero così pieno di disgusto che ebbi la tentazione di suicidarmi, di tagliarmi le vene. Una volta, quando potevi respirare liberamente, quando potevi sollevare lo sguardo e vedere il sole e la luna, c’erano degli uomini che nascevano proprio nell’anno in cui una cometa attraversava il cielo, ed essi attendevano il suo ritorno per tutta la vita, e solo allora potevano morire. Quell’anno ero così depresso da credere che fosse destino che Luther Battle fosse nato e dovesse morire con l’assassinio di un uomo. «Ma nel ’29 ormai lavoravo da trentadue anni per la Compagnia McAlpine, e c’era parecchio lavoro, quell’anno. Bitler aveva fatto arrabbiare un sacco di gente, e molti avevano dovuto alzare le chiappe. «In seguito al suo assassinio, si verificò ogni tipo di protesta per spazzare via ogni ghetto di superficie e per costruire delle case decenti sopra le strade, anziché sotto. Io facevo parte delle squadre di demolizione, non di costruzione. Avevo sessant’anni, e sfogavo la rabbia e il dolore abbattendo vecchie abitazioni: era l’unico modo in cui potevamo fare qualcosa per noi stessi. Quell’anno ordinai la demolizione di quindici edifici, riuscendo a far crollare i muri con estrema precisione e liberando il terreno dalle macerie in breve tempo. Gru, scavatrici, trattori, camion, e tutti si davano da fare perché ero io ad ordinarglielo. C’era solo una cosa che mi impediva di impazzire, Zoe: abbattere i gabinetti del secolo scorso con attrezzi della stessa epoca. Poi quell’ondata si esaurì, i contratti di lavoro cominciarono a scarseggiare e il Consiglio Urbano non fece niente per incrementarli di nuovo. Così adesso abbiamo ancora dei maledetti ghetti ad Atlanta, contrariamente a ciò che dicono i rapporti del servizio d’ordine. Bondville è uno dei peggiori. Il figlio e il nipote di Parthena vivono ancora là… Ma quell’anno terribile passò, ed io sono sopravvissuto, Zoe. «Quindi me ne sono andato in pensione. Ho vissuto da solo al Livello 7, là sotto, proprio come avevo fatto durante tutti gli anni in cui lavorai per la McAlpine. La Compagnia era stata la mia famiglia fin dal ’97. Mio padre e mia madre ebbero fortuna: morirono prima di vedere una cupola sopra le loro teste. Mentre io non fui fortunato: dovetti continuare a firmare per la McAlpine e contribuire alla costruzione di quella dannata cosa lassù. — Anche tu hai partecipato alla costruzione? — chiese Zoe. Non aveva mai conosciuto nessuno che lo avesse fatto, o meglio nessuno che lo avesse ammesso. — Sì. Vi erano impegnate dodici squadre di imprese diverse che lavoravano indipendentemente sulla base di un progetto elaborato da un computer dell’Est o forse della California. Eravamo in ritardo di un anno rispetto a New York e a Los Angeles, dicevano quelli della McAlpine, e dovevamo recuperare. E la stessa cosa dicevano nel ’97, quando mi assunsero, tre anni dopo l’inizio del Progetto Cupola; e mai nessuno chiese perché diavolo avremmo dovuto metterci alla pari con New York e L.A. in questa folle impresa. Prima del progetto, la maggior parte di noi era senza un lavoro: così restammo zitti e cogliemmo al volo quell’occasione di guadagno che la città offriva. Proprio così, Zoe. Incominciammo una piramide, un’enorme e antica tomba in cui barricarci per non uscirne mai più. In Egitto, gli schiavi avevano dovuto lavorare per vent’anni per costruire la Stanza Mortuaria per il Faraone, ma non dovettero poi restare chiusi là sotto. Noi abbiamo fatto di meglio. Abbiamo costruito la nostra in dieci anni, e in modo tale da metterci il coperchio dall’interno. Non c’era nessun Mosè a dirci: «Ehi, aspettate un momento: non vorrete vivere per sempre in questo posto!». Ma noi guadagnavamo discretamente, anche se eravamo pagati in dollari UrNu, e non pensavamo che un giorno non si sarebbe potuta scorgere neppure una piccola porzione di cielo, neppure un po’ di blu per colorare un paio di jeans. Fu un’avventura. Nessuno pensava ad una seconda, faraonica schiavitù. Neppure io. Anche quando mi assunsero nella McAlpine, mi sentivo come se io fossi il capo di chissà cosa. — Come si svolse? — Be’, dovevamo salire sulle sezioni dell’impalcatura della cupola già completate, e vi salivamo con le navette, come quelle che di sera vedi sfrecciare con i riflettori accesi. Si lavorava sulle piattaforme o sull’intelaiatura delle navette, e si era sempre lassù, sovrastando l’intera zona, e si poteva vedere ogni cosa, anche quando il vento ti investiva come se volesse ridurre a pezzi e brandelli tutta la tua dura fatica. Il Monte Stone. Parecchi laghi. Le montagne di Gainesville. «E il kudzu, Zoe, kudzu come non l’hai mai visto o come non riesci neppure a ricordare. Quel rampicante impazzito serpeggiava su ogni cosa, pali telefonici e granai che crollavano al suolo, comprese alcune palazzine della città e i condomini che aveva cominciato ad intaccare verso la fine del secolo. Il mondo intero era diventato verde e stava forse morendo a causa del kudzu, così verde da farti male agli occhi. E là in cima, Luther Battle si sentiva Cheope, Re Tut o qualunque altro di quei bastardi che si fecero costruire le tombe più gigantesche. Ma non mi sono mai chiesto: «Hoooi! Luther, perché lo facciamo?». Dopo mangiato, Zoe e Luther tornarono al ricovero e presero l’ascensore della Torre per raggiungere il quarto piano. Anche se sulla via del ritorno lungo i cortili pedonali, lei non glielo aveva permesso, ora, nell’ascensore lasciò che lui la prendesse la mano. Dieci anni dopo aver lavorato per la McAlpine, lui aveva ancora le mani callose, o coi segni di vecchi calli. Nell’ascensore era di nuovo imbarazzato, come se la sua conversazione durante il pranzo fosse stata uno sfogo che lo avesse lasciato indifeso e insicuro di sé. Be’, anche lei si sentiva in imbarazzo. Soltanto che Luther aveva un vantaggio: si notava meno quando arrossiva. Quando furono nella stanza comune, che era rimasta deserta per una sorta di tacito accordo, Luther la condusse vicino al suo letto e fece scorrere i paraventi automatici. Rosolarsi, questo era il termine ora usato dai giovani. E a lei andava bene, anche se aveva qualche riserva su ciò che sembrava suggerire, e non perché Luther fosse un drago ansimante quando lo faceva. No, ma solo perché era passato molto tempo. Rabon era stato l’ultimo, naturalmente, e questa prontezza nell’accettare le regole dei Phoenix la sorprese un poco. Per anni aveva subito un processo di… (qual era la divertente volgarità usata da Melanie?) mummificazione, e non ci si poteva aspettare che lei si liberasse del sudario, dei balsami e degli altri conservanti, e che uscisse da un limbo durato molto a lungo in un solo pomeriggio. Così quel giorno Zoe provò solo l’amara eccitazione del dolore, nonché la rapidità di Luther. Ma con il passare delle domeniche — la successiva con Paul, quella seguente con Luther, quella ancora dopo con Paul, e così via, secondo l’inclinazione ed una scaletta tutt’altro che rigida — le cose migliorarono. Poiché non era mai veramente morta, non ci volle un tempo così lungo come per l’ipotetica resurrezione di un Faraone. Assolutamente no. Perché lei era Zoe, Zoe Breedlove, e ormai non ricordava più il suo nome da ragazza. 10. Jerry e le sue manie Che cosa faceva Jerry in quella stanzetta misteriosa, fra la sala comune e quella da pranzo? Zoe si chiedeva perché mai Jerry, non appena aveva un momento libero (dopo mangiato, prima di andare a letto, la domenica mattina) voltava la sua sedia a rotelle con un debole ronzio e si ritirava nella stanza. Jerry si assentava per tutto il tempo che aveva a disposizione: quindici minuti, trenta, o anche un’ora. Ciò che aveva incuriosito Zoe, fu di vedere la sua chioma voluminosa e gli occhi tristi attraversare il corridoio illuminato verso mezzanotte e tornare nella camera comune dopo una di queste frequenti assenze. Quella domenica notte (anzi, più propriamente lunedì mattina), dopo aver avuto rapporti, sia sociali che carnali, con Luther, la cosa si verificò di nuovo, e Zoe udì l’uomo paralizzato ritornare nella camera fischiettando: — Zippity-Doo-Dah — pareva dire. Poi se ne andò a letto. Jerry si coricava la sera, pensò Zoe, e la brioche era al pomeriggio. Aveva la mente confusa, in pieno caos. Era qualcosa che riguardava Toodles. E Helen, Parthena e Luther. Solo Paul ne era escluso, per ora almeno. Ma tutti questi Phoenix stavano dormendo. — Jerry? — chiamò, mettendosi a sedere e appoggiando i piedi sul pavimento. — Chi è? — Non riusciva più ad intravedere i suoi occhi, ma il casco macrocefalico della sua figura si voltò verso di lei: — Zoe? — Sì — rispose. — Sono io. Non riesco a dormire. — Si infilò la vestaglia (Sanders le aveva portato al ricovero quasi tutte le sue cose quel sabato pomeriggio, ma non era salito a vederla) e camminò a piedi nudi sul pavimento dell’angolo riservato a Jerry. I Phoenix potevano continuare a russare. Non c’era pericolo che quelle seghe raschianti cessassero di lavorare; c’era abbastanza rumore da farti desiderare di essere sorda, benché ogni suono fosse diverso dall’altro e piuttosto interessante: un’orchestra variegata. Là un fischio metallico. Là un corno acustico. Laggiù un basso tuba. Quello, un paio di sonagli. E… Jerry sogghignò sardonicamente e si grattò il naso con un dito. — Non riesci a dormire, eh? Ti va di andare in cucina a bere qualcosa? Magari del vino. Il vino è indicato per l’insonnia. — Il vino fa bene per molte cose. — commentò Zoe. — Volevo chiederti che cosa fai quando ti comporti così antisocialmente nei nostri riguardi e ti chiudi nello sgabuzzino. — Indicò la porta. — Sei simpatica. Allora ti farò un quiz con più risposte. A) Sto producendo un elisir dell’eterna giovinezza; B) Sto mettendo a punto un congegno antigravitazionale che spedirà l’intera Atlanta fra le stelle; C) Sto commettendo innominabili crimini passionali sulla custodia di un vecchio telescopio e sul preparato di una scatola di Petri; oppure D) Io… io… Sto diventando matto, mia cara. Scegli, ti prego. — D — rispose Zoe. — Come? — Scelgo la D. Mi hai detto di scegliere, ed io scelgo quella. Come colpito da una brillante intuizione (ad esempio, la chiave per realizzare un apparecchio antigravitazionale), Jerry batté le mani e borbottò: — Ah, anche a quest’ora, la tua intelligenza non ti tradisce. Mi dichiaro battuto. — Non ancora. Non mi hai ancora dato una vera e propria risposta, e sono quasi due minuti che ti sto parlando. — Oh, oh! In questo caso, cara Zoe, vieni con me. — Jerry Zitelman-Phoenix si girò per lasciarsi cadere nella ronzante sedia a rotelle e varcò la porta della stanza comune. Zoe lo seguì. Jerry scivolò lungo il corridoio, ma Zoe avvertiva più il rumore dei suoi piedi scalzi che il ronzio piacevole della sedia. Ronzio che si interruppe quando lui raggiunse la misteriosa stanzetta. — Avrei preferito attendere domani, sai. Ma col passare degli anni ho imparato a soddisfare i capricci delle signore che soffrono d’insonnia. D’altra parte ho terminato quello che stavo facendo. Non ti disturberà dare un’occhiata al frutto delle mie fatiche. Disturberà me, comunque. E tu potresti semplicemente prolungare la tua insonnia. Alle due del mattino, e forse anche più tardi, Jerry era unico, un flusso inarrestabile di trovate. Non molto diverso da quel giovedì notte quando, sul terrazzo, si era messo a parlare delle stelle invisibili e della paralisi che lo affliggeva da una vita. Sciocchezze! Zoe ora lo conosceva meglio: lui era lo stesso di giovedì notte, se ti riferivi alla sua parte inferiore; quell’apparente cambiamento era solo nel modo di rivelare la sua personalità. Una maschera che si era tolto per un istante, e che si era subito rimessa. Oh, non era difficile mettere a nudo l’anima di quest’uomo. Dovevi solamente stare attenta a non distruggerla lasciandogli capire che tu potevi vederla a nudo. No, tieni il tappo sulla bottiglia, avvolgi il tuo fascio di emozioni in un vecchia giarrettiera. E sorridi, sorridi, sorridi. Perché Jerry era un tipo simpatico. Nonostante le sue manie. Entrarono nella stanzetta e lui accese la luce. Dalla porta, Zoe vide un banco su cui vi erano delle fotocopiatrici, pile di fogli, una macchina da scrivere elettronica IBM (ne avevano una dello stesso tipo negli uffici della redazione del Journal/Constitution) e un mucchio di opuscoli di colore giallo-arancio. Al banco erano inoltre fissati dei piccoli adattatori (messi da Luther) in modo che Jerry potesse sistemare la sedia per poter lavorare più comodamente. Opuscoli. Non si vedevano in giro molto spesso. E c’era una buona ragione: gli Editti di Soppressione del ’35 avevano bandito le fotocopiatrici private. Ciascuno possedeva una visiconsolle e poteva essere soddisfatto. I Phoenix ne avevano due nella sala comune, per quanto Zoe non li avesse mai visti usarle. Del resto lei stessa, da quando era entrata nel ricovero, non l’aveva mai usata. E adesso vedeva degli opuscoli: opuscoli! — Mi sono sempre chiesta dove fossero finiti gli autori di pamphlet di Atlanta — disse Zoe. — Stai propugnando la distruzione della nostra Costituzione Urbana? Jerry si portò una mano sul petto. — Cara Zoe, il mio nome è Zitelman e non Marx, e prima di tutto… no, non prima di tutto, ma come ultima cosa e per sempre, io sono un Phoenix. — Prese una copia dal mucchio e la porse a Zoe, la quale si era fatta più avanti in quel covo da cospiratori zeppo di roba. — Questo numero che ho realizzato in tre o quattro settimane, anzi di più, è dedicato a te. E non solo questa copia, bada bene. Ma l’intero numero. Zoe osservò la copertina dell’opuscolo dove, sullo sfondo giallo-arancio, spiccava il disegno a china di una fenice stilizzata che rinasceva dalle sue stesse ceneri. Il titolo della pubblicazione era stampato nell’angolo in basso a sinistra, a caratteri piccoli e stretti: Jerry e le sue manie. E un po’ più sotto: Vol. VI, n. 1. — Che cos’è? — chiese Zoe. — È la nostra famzine — rispose lui. — Tutte le unità settigame ne hanno una. Rivista di famiglia, di cui io sono editore e redattore. Si tratta della Vera Storia e Documentazione dell’unità settigama Phoenix, la quale racchiude gli sforzi creativi e gli utili consigli delle nostre varie mogli. Un giorno, cara Zoe, qui dentro si parlerà anche di te. — Non dire quattro finché… — disse Zoe sfogliando l’opuscolo. — Be’, come un intellettuale ormai sicuro delle proprie inclinazioni, ora voglio contare seriamente. — Puntò malignamente un dito deforme verso di lei. — Uno — disse con un comico accento della Transilvania. — Uno… — Lei rise, dandogli un buffetto sulla sua chioma ispida. Ma soltanto il giorno seguente, prima di colazione, Zoe ebbe la possibilità di leggere l’opuscolo, quella copia ancora inedita che Jerry le aveva dato. Vi trovò illustrazioni firmate da Parthena, Helen e Paul, nonché articoli e poesie di ciascun membro della famiglia. Parecchi erano omaggi, brevi elogi allo scomparso Yuichan Kurimoto. Il numero si concludeva con un poemetto in versi liberi che dava il benvenuto a Zoe Breedlove come candidata al matrimonio coi Phoenix. Un composizione un po’ retorica ma di buona fattura. Era firmato J.Z.-Ph., e quest’ultima pagina si concludeva col motto della famiglia, consistente in una sola parola: Dignità. Tutto era così ridicolmente sdolcinato. Come potevano avere la sfrontatezza di inserire lì quella parola? Zoe dovette asciugarsi gli occhi prima di andare in sala da pranzo per la colazione. 11. Nel sole che un tempo era giovane Di tutti loro, Paul era il più difficile da conoscere. Parthena aveva avuto ragione asserendo che parte della difficoltà era dovuta alla sua mente ormai non più lucida, e che anzi non lo era più da molto tempo. Paul sembrava avere un legame spirituale con il secolo precedente e con l’epoca anteriore alle cupole. Aveva nove anni quando l’Apollo 11 raggiunse la Luna, tredici quando le missioni Apollo ebbero termine, e lui ricordava entrambe le cose. — Le ho viste alla TV — disse. Parlava con molta più lucidità della sua adolescenza trascorsa in California che dei fatterelli quotidiani del ricovero. Un altro dei suoi argomenti preferiti era la possibilità di raggiungere non un’imprecisata e sicuramente corrotta vita oltre la morte, bensì l’immortalità del corpo. Infatti il suo unico contatto concreto con il presente era la gioia allo stato puro che provava la domenica pomeriggio, quando offriva delle onorevoli prestazioni e si comportava da uomo maturo. A quanto pareva, le occhiate maliziose e gli ammiccamenti erano gli involontari residui di una gioventù sprecata. — È diventato sclotico, qui dentro — disse Parthena, dandosi un colpetto sulla testa — per la vita che ha condotto e per la vecchiaia stessa — (Zoe intuì che sclotico stava per sclerotico.) — Droghe, alcool, donne, il gioco. Si vanta di non aver mai avuto un lavoro vero e proprio, ad eccezione del gioco d’azzardo, con cui si guadagnava da vivere. Mr. Leland non se la sente di somministrargli nuovi farmaci che potrebbero rallentare il deperimento delle sue cellule cerebrali. Potrebbe essere il colpo di grazia. E con quegli occhi da weimaraner e le labbra sottili e screpolate, Paul a volte sembrava il fantasma di se stesso, anziché un essere vivente. Ma poteva muoversi ancora senza troppa fatica. Andava qua e là senza problemi, come un fantasma. Un giorno, tre settimane dopo l’arrivo di Zoe, Paul le si avvicinò nella sala comune, dopo pranzo, (mentre era intenta a esporre in una bacheca le sue foto) e le spinse accanto una sedia. Lei piegò il capo e vide le labbra sottili che incominciavano a muoversi. — È il momento di una delle mie funzioni — disse. — Tu non assisti a quelle Orto-Urbaniste con Helen e Parthena, per questo credo ti potrà interessare una delle mie. La terrò questa mattina, proprio qui. — Che tipo di funzione? — Vedrai. — Ammiccò, forse involontariamente. — La Vera Parola. La predico quattro volte all’anno, una volta al mese secondo il nuovo calendario. — La Vera Parola su che cosa? Ognuno di noi ha la sua vera parola. — Su come non morire, donna. È la base di ogni religione. — No — replicò Zoe. — Non di tutte: solo di quelle che non sanno come regolarsi con questo mondo. Le labbra sottili si strinsero e gli occhi si dilatarono. Poteva benissimo averlo offeso. In ottant’anni nessuno gli aveva detto che un sistema ontologico non doveva necessariamente concentrare ogni sua dottrina sul problema del «come non morire». O se qualcuno l’aveva fatto, Paul l’aveva dimenticato. Tuttavia, egli cercò di nascondere la sorpresa. — La base — disse maliziosamente — di ogni religione che si rispetti. Jerry, che aveva casualmente ascoltato la conversazione, raggiunse il tavolo da lavoro: — Porcherie, Paul. Del resto, se domani ci venisse garantita la vita eterna, noi non saremmo niente altro che struldbrug. Zoe inarcò le sopracciglia: struldbrug? Paul non replicò. — È qualcuno che non può morire — spiegò Jerry, — ma che tuttavia continua ad invecchiare e a peggiorare la sua infermità. Fra duecento anni potremmo essere tutti dei poveri vegliardi immortali. Risparmiatemi questa fortuna. E questo pose fine alla conversazione. Come un fantasma dalle sembianze umane, Paul lasciò la stanza. Domenica mattina, comunque, Luther scese nella sala comune per prendere uno scatolone di pezzi d’alluminio, il più grande dei quali assomigliava ad un tamburo cilindrico; l’aveva trovato nello sgabuzzino dove tenevano i bersagli delle freccette, l’equipaggiamento da croquet e le carte da gioco, poi assemblò questi pezzi d’alluminio in un… cavallo a dondolo, abbastanza grande per farci salire un uomo. Era uno splendido cavallo a dondolo, e sulla sua testa, fra gli occhi dipinti, c’era raffigurato uno scarabeo che sospingeva davanti a sé una specie di palla di sterco cosmica. Zoe, che si trovava nella sala comune con tutti i Phoenix, escluso Paul, si avvicinò alla creatura metallica per esaminarla. L’emblema a forma di scarabeo era così particolareggiato che dovette avvicinare gli occhi per distinguere l’immagine che il cavallo recava sulla fronte. Un minuscolo insetto blu. Una pallina rossa. Be’, è diverso dal solito: divertente e misteriosa al tempo stesso. — Che cos’è? — chiese a Luther, il quale, borbottando tra sé, cercava di risistemare lo scatolone nello sgabuzzino. — Un pulpito — disse. Pensava che lei si riferisse a tutto l’insieme. Rinunciò a spiegarsi, perché lui continuava ad armeggiare con lo scatolone. Ma pulpito era davvero un sinonimo curioso per cavallo a dondolo. Dopo aver sistemato lo scatolone nello sgabuzzino, Luther tirò fuori anche una sottile bottiglia di metallo e la portò vicino al biomonitor, di fianco all’orpianola di Toodles. Quindi la posò a terra e raggiunse le sedie disposte a semicerchio davanti al cavallo a dondolo. Una stupidaggine, dall’inizio alla fine. Zoe appoggiò un dito sulla fronte del cavallo, proprio sulla figura dell’insetto, e spinse. Il cavallo, così leggero che solo i robusti pattini ricurvi lo trattenevano dal rovesciarsi, cominciò ad andare su e giù, annuendo con grazia. Nessuno parlava. Zoe si unì al gruppo e si strinse nelle spalle. Era come se bisognasse minacciarli di ricorrere ad un’autopsia prematura per avere qualche spiegazione. — Non fare domande — le disse Jerry alla fine. — Ma dal momento che te lo sei chiesta, ti dirò che è per tenerlo allegro. Paul aveva richiesto il cavallo due mesi dopo la cerimonia contrattuale del ’35, e il dottor Tanner aveva acconsentito. Adesso, quattro volte all’anno, gioca a fare il cowboy ottantenne, e cavalca nel tramonto dei suoi sogni di fronte a tutti noi. Non è un gran fastidio starlo ad ascoltare. Zoe osservò quei cinque che se ne stavano lì seduti con il timore che lei non riuscisse a capire: cinque vecchie facce titubanti. Lei si sentiva in imbarazzo. Erano preoccupati quella mattina perché non sapevano come lei avrebbe reagito di fronte allo scheletro vivente che tenevano nell’armadio di famiglia: il decrepito cavaliere delle praterie Paul Erik Ferrand-Phoenix. Era senza parole. Tutto quello che potevano fare era di riconoscere che lei si trovava terribilmente a disagio. — O gente di poca fede — fu sul punto di dire, — andate ad arrostire i vostri cuori avvizziti sulla griglia di Yuichan. Anche se poi non rimarrebbe nulla da mangiare. — Ma non disse nulla: si sedette con gli altri e attese. Forse loro non credevano che lei avesse compassione per Yuichan, forse la ritenevano inadatta a sostituire il loro caro, defunto giapponese… In quel momento Paul si fece avanti silenziosamente: un’entrata ad effetto. Senonché pareva non curarsi affatto di ciò che gli altri potevano pensare di lui, dimentico del suo passato splendore. Vestito di bianco immacolato da capo a piedi (un abbigliamento ora di moda persino tra i giovani, i gambali intonati con la tunica) si appoggiò al cavallo metallico senza guardarli. Poi, lentamente, vi montò sopra, sfiorando i pattini dell’animale con la punta delle bianche pantofole. Era di fronte a loro. Dietro di lui, come un sipario, uno stendardo trapuntato: blu-marino con una fenice cremisi dalle ali spiegate nel centro. Zoe non poté fare a meno di pensare che ogni dettaglio dell’entrata di Paul ed i suoi gesti fossero stati accuratamente studiati. O forse questo rituale trimestrale li aveva coinvolti a tal punto che ormai non sentivano più la necessità di prepararlo in anticipo. Comunque Zoe, pur consapevole dell’assurdità di tutto ciò, dovette ammettere che lievi impulsi, simili a scosse elettriche, le scendevano lungo la spina dorsale. Come quando si era messa a cucire per la prima volta col gruppo. Lentamente, con movimenti ipnotici, Paul cominciò a dondolarsi. E iniziò a sussurrare debolmente la Vera Parola. — Quando eravamo giovani — disse, — c’era il fuoco, e il cielo, e l’erba, e l’aria, e creature che non erano umane. Il cervello umano era collegato a tutto questo, il cervello umano funzionava con le batterie del fuoco e del cielo e di tutto ciò che si trovava all’esterno. — Amen! — intervenne Luther, senza interrompere la cadenza di Paul, ma tutto ciò che Zoe riuscì a pensare fu «la Città ha ancora creature che non sono umane: i piccioni». Ma il cavallo a dondolo cominciò a muoversi più velocemente, ed anche la voce del cavaliere acquistò velocità, ed un impeto che seguiva un proprio ritmo. Mentre Paul parlava e pregava, di tanto in tanto un — Amen! — o un — Sì, fratello! — punteggiavano occasionalmente qualche passo particolarmente inatteso o efficace del suo sermone. Tutto faceva parte del rituale. A un certo punto Zoe si trovò ad essere coinvolta in un modo consapevole. Molto strano: si sorprese a rispondere alle assurde asserzioni di Paul con — Amen! — o — Preghiamo! — o altre convinte esclamazioni che non aveva mai pronunciato prima. La sua partecipazione crebbe ulteriormente quando il dondolio divenne forsennato e gli occhi di Paul cominciarono a lampeggiare come sinistre luci stroboscopiche, mentre il cavallo continuava ad andare su e giù. — Poi, prima di giungere a metà della nostra vita, ci misero nella tomba. Dissero che eravamo morti anche se potevamo sentire scorrere in noi la linfa vitale, e l’energia scaturire nella nostra testa. Le tombe si innalzarono, lassù. Non importava ciò che provavamo, non importava che fossimo ancora collegati con la vita fuori della tomba, con l’aria e il fuoco e il cielo. Perché con le tombe là in alto, tu cominci veramente a morire, cominci veramente a perdere l’energia che scorre fra te e l’esterno. Guardati, guarda tutti noi. — (C’era qualcosa di più ridicolo di quel ragionamento?) — Quella corrente, quel fluido preziosissimo sta scivolando via. Perché il nostro cervello è collegato con il sole o con la luna, inseriti a turno, ed ora ci hanno relegati in un luogo dove la corrente non scorrerà. Zoe, per quanto avesse risposto con un — Sissignore! —, pensava che Paul dovesse essere stato collegato con la luna: un pazzo furioso. Ma da un certo punto di vista, anche se un po’ paradossale, c’era un che di logico in quel folle ragionamento. Anche se tutti erano consapevoli che il mondo stava diventando un inferno, prima della costruzione delle cupole, be’, tuttavia c’era qualcosa di vero in quelle insulsaggini. Forse, ad un certo punto della tua vita (che per Zoe era già passato) impari a giudicare gli altri, anche negativamente, ma senza condannare. Era proprio quello che Zoe stava facendo, adesso. Osservava il vecchio Paul sul cavallo a dondolo secondo due prospettive diametralmente opposte, e non aveva alcun desiderio di conciliarle. Infatti, la maledizione avveniva, stava avvenendo, indipendentemente dalla sua volontà. Come sempre, dopo la morte di Rabon. Era il vecchio fenomeno binoculare che operava su di un piano filosofico anziché fisico. Molto tempo prima era capitato anche a Helen, la «mediatrice» dei Phoenix. E mentre i piccoli occhiali di Helen mettevano a fuoco l’immagine del mondo, la duplice visione che Zoe aveva in quel momento riportava nella sfera della sua comprensione i due Paul a cavallo, quello demoniaco e quello umano, e li fondeva. Perché ne era così sorpresa, dato che non era la prima volta che le capitava? — … Ed è il cervello l’unico mezzo per conseguire l’immortalità conservando anche il corpo. Esso è ciò che noi siamo. Dobbiamo di nuovo collegarci con il sole, con il sole e con la luna. Nessuno può farlo senza risorgere dalla tomba in cui siamo stati rinchiusi ancor prima di aver trascorso metà della nostra vita… Il cavallo dondolava freneticamente, e la voce di Paul scandiva ciascuna frase, spesso ripetuta, con lampi di misurata isteria. Il braccialetto al polso di Zoe sembrava emettere dei suoni. Diede un’occhiata al biomonitor a fianco dell’orpianola, e vide l’oscilloscopio sintonizzato sulle onde cerebrali e sul battito cardiaco di Paul tracciare fasci di pallide comete attraverso lo schermo, su e giù, su e giù. Anche gli altri sei monitor segnalavano rapide pulsazioni, e lei si domandò se qualcuno, là sotto, stesse prendendo nota di questa attività. Comunque, tutti erano certamente vivi: molto vivi. Ora Paul aveva gli occhi fuori dalle orbite e il cavallo lo stava trasportando in un territorio dove infanzia e maturità erano eternamente immutabili. Lui era solo, là, solo con il suo cervello e gli impulsi di desiderio che scaturivano dal suo corpo. Ancora preghiere. Ancora declamazioni. Finché l’ultima parola venne pronunciata. Allora Paul cadde in avanti sul collo del suo destriero di alluminio, svenuto. O forse morto. Zoe si alzò, anzi scattò in piedi. Con sua sorpresa gli altri Phoenix, Toodles, Helen, Jerry e Parthna, stavano applaudendo. Luther non si unì a loro per andare a sostenere Paul prima che cadesse dal cavallo ancora in movimento e si rompesse la testa. — La migliore funzione degli ultimi tempi — disse Parthena. Poiché l’applauso continuava, Zoe fu presa da una specie di follia e si unì a loro. E mentre tutti applaudivano (i sermoni si concludevano tutti come questo, con la congrega dei fedeli che prorompeva in una spontanea ovazione?), Luther sorresse Paul fino al biomonitor, lo fece stendere, e gli somministrò dell’ossigeno dalla bomboletta metallica che poco prima aveva preso dallo sgabuzzino. Quindi lo spettrale cowboy sollevò leggermente il capo e con un debole sorriso ringraziò per l’applauso ricevuto. Infine Luther lo mise a letto. — Devi dirgli qualcosa — disse Toodles. — Altrimenti il vecchio bastardo penserà che non ti sia piaciuto. Ma Paul non si sentì molto bene nei tre giorni successivi al sermone. Restò nella camera comune a dormire o a fissare il soffitto. La prima notte, Zoe gli rimase seduta accanto, aiutandolo a sorbire del brodo con la cannuccia flessibile. Vuotò la scodella in pochi minuti e Zoe, credendo che volesse dormire, si alzò per andarsene. Paul allungò il braccio per afferrarle il polso, ma mancò la presa. Zoe se ne accorse e tornò indietro. La mano di Paul batté sul letto: siediti. Così Zoe si lasciò cadere sulla seggiola e prese quella mano rubizza fra le sue. E la tenne per più di un’ora, rimanendo seduta. Poi le labbra sottili e screpolate si socchiusero, e Paul disse: — Ho paura, Zoe. — Anch’io ho paura — rispose lei. — Qualche volta. — Come l’aveva in quel momento, dovette ammettere. La bocca restò socchiusa e gli occhi da weimaraner diventarono vitrei. Paul si passò la lingua sulle labbra sottili. — Puoi venire a letto con me, se ti va. Chiuse gli occhi. E si addormentò. 12. Da qualche parte a cavallo di un manico di scopa Non c’erano mai stati dubbi. Forse un’ombra, solo un’ombra di esitazione la prima notte, quando gli uomini offesero Toodles. O forse c’era stata qualche incertezza con Paul, almeno fino al suo sermone sul cavallo a dondolo e il conseguente collasso. Ma non furono mai dei seri dubbi. Così quando quella sera di fine Inverno Luther salì sul terrazzo e disse: — Sei ammessa, Zoe; sei ammessa — la sua gioia fu contenuta, sincera ma contenuta. Mai gridare urrà fino a quando il matrimonio non è celebrato o gli astronauti non sono tornati a casa sani e salvi. Zoe abbracciò Luther. Quando scese, abbracciò tutti gli altri. La mattina che seguì l’importante decisione, nel cortile del ricovero si tenne la cerimonia contrattuale. Era Leland Tanner a presiederla. Era il primo giorno di Primavera del 2040, secondo il Nuovo Calendario. — Bene — disse Mr. Leland. — Ogni unità settigama ha la sua esclusiva procedura contrattuale, Zoe, dal momento che ogni forma prescelta per ratificare il vincolo è giudicata legale dalla Commissione per lo Sviluppo Umano. La cerimonia dei Phoenix nasce da un’idea di Parthena. — Osservò il gruppo. Erano tutti in piedi presso il prato artificiale circondato da gingko dal fusto cilindrico. Sotto l’albero più vicino c’era un tavolo coi rinfreschi. — Non è vero? — Sì — rispose Parthena. E poi, fra tutte le cose più strane, Mr. Leland tirò fuori una scopa che teneva nascosta dietro la schiena. La depose sul resistente tappeto erboso e arretrò di qualche passo. — Ecco — disse. — Tutto ciò che ora dovete fare è unire le mani e saltare insieme la scopa. — Rifletté. — Forse sarebbe meglio saltare divisi in due gruppi di tre, e tu Zoe salterai con ciascuno. Qualche obiezione? — No — disse Parthena. — Basta che la salti dalla stessa parte entrambe le volte. D’accordo. Quella era la procedura. Zoe saltò prima con Helen, Toodles e Luther, e poi con Parthena, Paul e Jerry, il quale dovette passare con la sedia a rotelle sopra una delle estremità del manico di scopa. — Io vi dichiaro — pronunciò Mr. Leland — tutti e sette uniti in matrimonio come Phoenix. Sei di voi lo sono per la seconda volta, uno per la prima volta. — Poi li invitò sotto l’albero ed offrì i drinks. — Evviva i Phoenix. Zoe bevve. Tutti quanti bevvero. Vennero servite molte tartine. Era molto appropriato sposarsi saltando un manico di scopa, dopo essere stata venduta lungo il fiume, nella libertà. In che altro modo avresti potuto farlo? In nessun altro, proprio nessuno. Paul e Toodles, il primo e la sesta della famiglia in ordine di età, morirono nel 2042. Un anno dopo morì Luther. Nel 2047, Helen morì due giorni prima del suo ottantesimo compleanno. In quello stesso anno il dottor Leland Tanner rassegnò le dimissioni dalla Torre per lo Sviluppo Umano; si lamentò di arbitrarie ingerenze in un progetto di ricerca che durava da dodici anni. E dopo la sua partenza dal Ricovero Geriatrico il suo programma venne interrotto, e i membri superstiti delle dieci unità settigame furono separati. Jeremy Zitelman morì nel 2048, nell’ala di cura intensiva del ricovero. In seguito alla sua morte, Parthena e Zoe vennero rimandate alle loro famiglie d’origine: Parthena andò in un’abitazione di superficie a Bondville, e Zoe tornò nel cubicolo di Sanders e Melanie Noble al Livello 1. Per una circostanza curiosa, questi ultimi due membri della famiglia Phoenix morirono a distanza di dodici ore l’una dall’altra, in un giorno d’Estate del 2050, in seguito ad una breve malattia. Fino ad un mese prima della loro morte si incontravano una volta alla settimana in un piccolo ristorante di West Peachtree, dove si dividevano una singola porzione di vegetali e parlavano dei loro nipoti. Parthena infatti era diventata bisnonna due volte. Dopo la cerimonia del salto del manico di scopa nel cortile del ricovero, Mr. Leland chiamò Zoe in disparte e le disse che c’era qualcuno che desiderava parlarle nella sala che una volta aveva chiamato «camera stagna». Sulla sua faccia equina un muscolo della mascella vibrò impercettibilmente, si strofinò le mani nel camice blu brillante. — Gli ho detto di attendere finché non avessimo finito qua fuori, Zoe. E lui ha accettato. Perché questo mistero? La sua mente era altrove. — Chi è? — Tuo genero. Zoe si diresse alla camera stagna, o di decompressione o come la si volesse chiamare, e vi trovò Sanders rannicchiato in un angolo del sofà, intento a giocherellare con un filo che usciva dal calzino. Quando la vide si alzò goffamente in piedi, con un’espressione da funerale sul volto. Sembrava essersi riempito la bocca con gli stessi fili che aveva tolto dai calzini: le guance gonfie, le labbra appena increspate. Lei continuò a fissarlo, finché lui non riuscì a trovare il coraggio di parlare. — Lannie ha perduto il bambino — disse. Così, quando Lannie uscì dall’ospedale, Zoe passò una settimana nel loro cubicolo al Livello 3, cercando di dare una mano fino a quando Lannie non fu in grado di sbrigarsela da sola. Trascorsa quella settimana, ritornò dalla sua nuova famiglia nel Ricovero Geriatrico. Ma prima di andarsene chiamò Sanders in disparte e gli disse: — Devo raccomandarti una cosa che dovrai dire anche a Lannie. Lo farai? Sanders abbassò lo sguardo. — D’accordo, Zoe. — Be’, dille… — cominciò Zoe — dille di riprovarci.